Di Daniele Ambrosini
Tra i titoli più piccoli e interessanti dell’ultima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia c’è sicuramente Burning Cane, film d’esordio del diciannovenne americano Phillip Youmans che ha prodotto questa sua opera prima attraverso il crowd founding durante gli anni del liceo e che è riuscito a portare a termine la post-produzione grazie all’intervento di un giovane candidato agli Oscar, il Benh Zeitlin di Re della terra selvaggia. Tra i titoli rivelazione di questa stagione cinematografica, Burning Cane ha vinto il premio principale dell’ultima edizione del Tribeca Film Festival, dove Youmans è diventato ufficialmente il regista più giovane mai selezionato dalla manifestazione.
Ambientato in una piccola comunità afroamericana della Louisiana, il film offre uno spaccato di vita del profondo sud attraverso la storia di tre personaggi alle prese con momenti difficili della loro vita. Helen è una donna di mezza età che le ha tentate tutte pur di curare il suo cane dalla scabbia, convinta che se lo portasse dal veterinario lui la costringerebbe ad abbattere il suo migliore amico, e lei non è pronta per liberarsene; Daniel, il figlio di Helen, nel frattempo perde il lavoro e mentre la compagna lavora è costretto a restare a casa tutto il giorno con il figlio piccolo, il che lo trascina nello sconforto e lo porta a bere sempre di più; un problema simile lo ha anche il reverendo Tillman, a capo della parrocchia di Helen, alle prese con il demone dell’alcol e con una progressiva perdita di fede.
Colpisce di Burning Cane il suo essere completamente slegato da una logica narrativa a tre atti classica, quello portato avanti da Youmans è più un flusso di coscienza che procede per associazione sensoriale, che punta a costruire un mood, a descrivere un ambiente che più che un ambiente fisico è un luogo dell’anima in quanto sembra che il malessere che unisce i personaggi permei tutto ciò che li circonda fino a diventare l’unico elemento costituente di un luogo che diventa parte dei suoi personaggi proprio in termini di sensoriali. E da quella malinconia è impossibile sfuggire, è un ciclo continuo che nessuno è in grado di spezzare, non ci riesce Daniel che inconsapevolmente vi condanna il figlio e non ci riesce il reverendo Tillman che predica bene ma razzola malissimo, incapace egli stesso di ascoltare la sua stessa parola, Helen, dal canto suo, tenta di combattere, ma la sua lotta è indirizzata verso il fronte sbagliato.
Quella di Youmans è una nuova forma di realismo magico, che si muove in campo concettuale rinunciando ad un approccio narrativo propriamente detto. Slegato da schemi di qualunque tipo Youmans – forte della sua genuina inesperienza che, sia chiaro, qui è un pregio – realizza un film molto sentito, efficace e affascinante quanto grezzo, un film ingenuo in certi frangenti quanto maturo in altri. Eccellente la caratterizzazione dei personaggi, i quali, però, non hanno un arco narrativo completo che permetta al film di arrivare al pieno compimento. Alla fine di Burning Cane si ha la sensazione che niente sia realmente cambiato, ciò potrebbe portare a pensare che il giovane regista proponga una visione rassegnata e priva di speranza, ma forse niente di tutto ciò lo interessa davvero, il suo dopotutto è un ritratto onesto privo di connotazioni morali e reinterpretarlo secondo questa chiave, forse, vorrebbe dire snaturarlo.
Burning Cane è un’opera con dei limiti, ma è anche estremamente potente e originale, diversa da qualunque altra cosa abbia prodotto il cinema indipendente contemporaneo (i paragoni con il primo Malick si sprecheranno, ma sono fuorvianti rispetto alla poetica più concreta e meno aulica del regista di New Orleans). Phillip Youmans è un giovane talento che ha davanti a sé ancora tanta strada da percorrere, ma se queste sono le premesse è più che probabile che questa sarà costellata di successi.
VOTO: 7,5/10