Il disagio dell’essere vittima di abusi e molestie raccontato dalle serie televisive

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Di Gabriele La Spina

Se c’è una cosa che difficilmente dimenticheremo del 2017, è il ciclone abbattutosi su Hollywood che ha spodestato non pochi personaggi dello showbiz dal proprio trono. Purtroppo esporsi pubblicamente oggi significa anche andare in pasto al web, il luogo per eccellenza dove tutti possono esprimere la propria opinione, un fatto in sé sia positivo sia negativo, là dove in pochi hanno la capacità di comprendere la prospettiva delle innumerevoli donne unitesi al movimento “Me too” o “I will not be silent” di sorta.

Tutto è cominciato dallo scandalo legato al produttore Harvey Weinstein, anche se in pochi ricordano l’eclatante caso di qualche anno su Bill Cosby, la presa di posizione di pochissime donne, attrici che hanno rotto un silenzio provocando coraggio in tante altre nella loro medesima situazione. Rose McGowen e Ashley Judd tra le prime a parlare, seguite da Mira Sorvino, Rossana Arquette e Gwyneth Paltrow tra le tantissime. Nessuno avrebbe però immaginato l’estensione che avrebbe avuto tale movimento, che ha portato alla luce anni di abusi e molestie di una Hollywood di cui avevamo un ricordo appannato, quello delle voci e del chiacchiericcio dei suoi anni d’oro. 
Nel mondo dei racconti, quelli fruiti attraverso il cinema e in particolar modo tramite la televisione, l’argomento di molestie e abusi, non è poi nuovo, e fortunatamente è stato trattato ancor prima che diventasse in qualche modo un trend. Era il 2008, quando la serie Mad Men portava in scena l’America degli anni ’60, quella che ci auguriamo sia totalmente diversa dalla contemporanea, ma che in realtà non lo è poi tanto, dove le donne avevano ruoli ben precisi e difficilmente opinabili: madri, casalinghe, segretarie, e per forza di cose strumentalizzate. Nell’episodio 12 della seconda stagione, intitolato “The Mountain King”, Joan, interpretata da Christina Hendricks, viene stuprata dal fidanzato e futuro marito Greg, nell’ufficio del suo capo alla chiusura dell’ufficio, un atto mirato alla sottomissione di lei, dove Greg vuole dimostrare la sua posizione di potere, che è e sempre sarà. La serie ha illustrato l’evoluzione del trattamento della figura femminile in America nel corso di un decennio, in ogni sua sfaccettatura, ed è ironicamente triste pensare che il suo autore, Matthew Weiner sia uno dei tanti accusati di molestie sessuali. 
Tutt’altra prospettiva è quella a cui assistiamo nell’episodio 10 “A Tittin’ and a Hairin”, della terza stagione di Orange Is the New Black, una linea narrativa sviluppata nel corso di vari episodi, dove una detenuta subisce lo stupro di una guardia, diventando sua schiava, impotente, sviluppa un’empatia nel suo stupratore e solo con l’aiuto di una sua compagna di carcere riesce a palesare il suo reale disagio emotivo. I quesiti degli sceneggiatori, Jim Danger Gray e Jenji Kohan, è semplice: una vittima è definibile tale anche se non denuncia l’accaduto? Ciò che viene esposto è la manipolazione psicologica subita, ma al contempo la paura di non ricevere alcun aiuto denunciando; si tratta di un caso definibile estremo quello di una carcerata che è consapevole della sua inferiorità rispetto a una guardia di sicurezza, che sarà sempre superiore a lei, creduta e tutelata. È così diverso un caso del genere da quello delle donne che oggi hanno denunciato le molestie subite a distanza di anni, e decenni in alcuni casi? Anche loro impotenti poiché inferiori, in un sistema che non tutelava le donne come oggi, si ritrovavano costrette a tacere, per paura delle conseguenze. 
Ma se nel caso dell’episodio citato di Mad Men, la forzatura della donna alla sottomissione è più evidente, lo è di meno nel personaggio di Pennsatucky in Orange Is the New Black, che pian piano convince sé stessa che nulla di sbagliato sia accaduto, è tale processo di remissione è ancor più intellegibile nel personaggio di Celeste Wright nella miniserie Big Little Lies, adattata da David E. Kelly dal romanzo di Liane Moriarty. Interpretata da Nicole Kidman, la donna è vittima degli abusi di un marito violento, mente a sé stessa ogni giorno nascondendo le sue ferite, inconsapevole che la situazione porterà al più tragico degli epiloghi. È nell’episodio 3, “Living The Dream”, dove inizia l’interessante storyline dove Celeste e Perry partecipano a delle sedute terapeutiche per risanare il loro rapporto, grazie all’ottima interpretazione della Kidman, possiamo leggere negli occhi di Celeste il disturbo di una donna continuamente costretta a mentire e reprimere, una menzogna che divora, provocata dall’inerzia e la paura delle conseguenze. Mente alla sua terapeuta provocando rabbia anche nello spettatore, che solo in seguito riesce a calarsi in quei panni.

Oltre all’esperienza psicologica delle vittime, altre due serie hanno invece raccontato con sagace ironia il dietro le quinte di una bufera mediatica a Hollywood. Nel caso di Bojack Horseman, nel settimo episodio della seconda stagione, intitolato “Hank After Dark”, la ghost writer del protagonista, Diane Nguyen diventa bersaglio dei media, di un pubblico inspiegabilmente cieco, per aver rivangato le accuse di molestie al beneamato personaggio televisivo Hank Hippopopalous. Una frase colpisce estremamente nel segno, tra i concetti di Diane: “Quando sappiamo ciò che sappiamo di un mostro come quello e lo mettiamo in tv ogni settimana, stiamo insegnando a una generazione di ragazzi e ragazze che la reputazione di un uomo è più importante della vita delle donne che ha rovinato“. Questo è il perché tali figure vanno detronizzate dopo l’emersione di casi del genere. Gli autori dell’episodio, Raphael Bob-Waksberg e Kelly Galuska, riescono inoltre a creare un conglomerato delle più tipiche reazioni popolari, che tendono nella maggior parte dei casi a scagliarsi più contro la vittima che il carnefice, esclamando a gran voce, la fangosa voce dei social, di non credere alle accuse di quelle cinque, dieci o venti donne, contro la negazione del personaggio famoso, a cui sono legati. L’epilogo dell’episodio andato in onda due anni fa è dei più pessimistici, dove Hank la passa liscia difronte alle accuse, ma oggi fortunatamente le vittime non hanno provato la stessa lancinante impotenza di Diane. Un altro backstage è quello di Master of None, nell’episodio finale della seconda stagione, “Buona notte”, dove il protagonista Dev, in procinto di iniziare un programma di cucina con il cuoco Jeff, si accorge della sparizione dal set di una truccatrice con cui aveva instaurato un piacevole rapporto, e trovandola a lavoro per un altro programma scopre che è stata molestata da Jeff, restia a denunciarlo poiché timorosa di perdere il suo impiego. La verità viene però a galla e il cuoco, insieme al povero Dev del tutto estraneo ai fatti, viene poco dopo travolto dalle denunce di altre donne, e sempre negante dei fatti viene crocifisso in diretta nel programma di Raven-Symoné; un teatro assurdo quanto veritiero. 
Tra il forte dramma e l’ironia tagliente, quelle citate sono semplicemente alcune delle prospettive più interessanti viste sul piccolo schermo, che forse potrebbero aiutare a comprendere al meglio, ragioni emotive e pragmatiche dietro a determinate scelte d’azione di una vittima di molestie o abusi, ciò che scaturisce una violenza subita e come si radichi nella personalità stessa della vittima. È semplice affermare “bastava dire no”, ma non sta tutto in una risposta, perché nel medesimo istante dove si è succubi innumerevoli fattori si scatenano, ed è purtroppo l’abbandono al consenso quella che erroneamente e istintivamente risulta la via più immediata. Che racconti come quelli citati possano fare comprendere a chiunque l’errore di pensiero del cittadino medio dei social, e quanto le voci di quelle donne e uomini di cui abbiamo sentito parlare finora siano state una vittoria e un cambiamento necessario.