Di Redazione
La scelta di Simone Fabriziani
Soul (Pete Docter)
La scelta di Dario Ghezzi
Palm Springs (Max Barbakow)
In un anno in cui il cinema ha particolarmente sofferto (e soffre ancora) l’on demand ha dato la possibilità di godere di un piccolo gioiellino: “Palm Springs-Vivi come se non ci fosse un domani” del regista Max Barbakow con Andy Samberg e Cristin Milioti. Presentato in anteprima al Sundance e poi alla Festa del Cinema di Roma, la pellicola rielabora in chiave di commedia romantica il leitmotiv del loop temporale (recentemente visto nell’horror Auguri per la tua morte). Nyles si ritrova bloccato in un infinito ripetersi del 9 novembre, durante il matrimonio di Tala e Abe. Tutto scorre liscio finché, durante l’ennesimo ripetersi del giorno, l’ubriaca damigella d’onore Sarah lo segue nella grotta da dove ha origine lo strano loop restandone anche lei intrappolata. A questo punto, nel film si sussegue una sequela di eventi che non fanno altro che cementare, in modo originale, la storia d’amore tra i due protagonisti, che si muovono in un eterno ripetersi ciclico del giorno. Palm Springs quindi unisce slapstick comedy ma anche temi tipici delle commedie romantiche e mostra una forte alchimia tra i due attori, i quali riescono perfettamente a mostrare il nichilismo dell’uomo contemporaneo, la fragilità dei sentimenti, la paura di impegnarsi e il tentativo di non ripetere gli sbagli del passato.
La scelta di Giuseppe Fadda
Mank (David Fincher)
Mank, l’ultimo film di David Fincher, probabilmente non è l’opera più accessibile di quest’anno, anche solo per il fatto che qualunque spettatore che non abbia visto Citizen Kane (1941, Orson Welles) e non conosca anche solo minimamente il contesto in cui è stato realizzato difficilmente riuscirà a orientarsi tra le varie personalità e le varie situazioni raffigurate nel lavoro di Fincher. Ma questo è più che legittimo in un film che, proprio come quello di Welles, vuole in primo luogo provocare: se Citizen Kane aveva sconvolto lo spettatore del 1941 per l’ambiguità dei suoi personaggi, la ricchezza e densità stilistica delle sue immagini e la complessità del suo racconto, Mank riprende queste tre caratteristiche (ambiguità, densità formale, complessità) e le enfatizza all’ennesima potenza. Ma Mank non si riduce mai a mero citazionismo: è un film fortemente polemico, che non si fa scrupoli a rileggere la realtà dei fatti per contestare quell’autorialismo ortodosso che identifica nel regista l’unico vero autore del film. Tramite la figura di Mankiewicz (un magnifico Gary Oldman), Fincher celebra la figura dello sceneggiatore (e, indirettamente, anche di suo padre, il defunto Jack Fincher, che ha firmato proprio la sceneggiatura di questo film), il tutto all’interno di un suggestivo affresco storico, che ritrae spietatamente la corruzione dietro allo splendore della Golden Age hollywoodiana.
La scelta di Anna Martignoni
Il processo ai Chicago 7 (Aaron Sorkin)
Lo sceneggiatore premio Oscar Aaron Sorkin, si sa, non ha paura della retorica e delle parole anzi, ne ha fatto il suo punto di forza in film quali The Social Network e Steve Jobs. Quest’anno, grazie anche all’insistenza di Steven Spielberg a portare avanti il progetto, Sorkin dimostra ancora una volta il suo talento in Il processo ai Chicago 7, di cui è sceneggiatore e regista. Il film, la cui genesi inizia nel 2006, è un perfetto legal drama ispirato alle vicende degli attivisti chiamati Chicago 7, accusati di aver generato gli scontri tra manifestanti e Guardia Nazionale durante la convention del Partito Democratico proprio a Chicago. Il gioco delle contrapposizioni domina l’intera durata del film, garantendo un ritmo fluido e capace di sostenere gli intensi dialoghi, padroni assoluti della pellicola. Lo spazio e il tempo si dividono equamente tra le tappe che hanno portato al giorno dello scontro e la sala del tribunale nel 1969, dove ritroviamo tutto il cast in stato di grazia. Il rigoroso decoro dell’accusa, il cui rappresentante è Joseph Gordon-Levitt, risulta nettamente in contrasto -narrativamente e visivamente- con la vivacità e il tono irriverente di alcuni degli imputati, a partire dagli hippies Sacha Baron Cohen e Jeremy Strong, nonché dal loro avvocato difensore Mark Rylance. Persino il bravo ragazzo Eddie Redmayne, che per tutto il film sembra capitato in quel gruppo per caso, sul finale della pellicola regala un momento totalmente inaspettato. Il processo ai Chicago 7 è, in definitiva, uno dei migliori prodotti di questo 2020, capace di raccontare una storia ambientata nel passato ma che è decisamente attuale.
La scelta di Massimo Vozza
The Lighthouse (Robert Eggers)
Probabilmente l’unico aspetto positivo di questa annata cinematografica vittima della pandemia è stato la distribuzione di alcune opere delle precedenti stagioni che fino ad oggi risultavano ancora inedite in Italia. Tra queste vi è The Lighthouse, uno dei titoli più attesi del 2019, opera seconda del regista, sceneggiatore e produttore Robert Eggers che qui conferma le sue indubbie capacità cinematografiche. Questo film, nato da un tentativo di adattamento del racconto Il faro di Edgar Allan Poe ma poi trasformatosi in una storia originale, è un horror innovativo, simbolico, una reinvenzione del mito di Prometeo ambientata verso la fine del XIX secolo, agghiacciante e allucinatoria che non lascia scampo all’umanità nel confronto con il divino, nel cercare di ottenere ad ogni costo il proibito oggetto del desiderio. Ad interpretare i due protagonisti, guardiani del faro su un’isola disabitata, Robert Pattinson e Willem Dafoe, immersi in una gara di bravura recitativa sorprendente e grottesca, all’insegna di un crescente delirio. I personaggi e l’ambientazione vengono per l’intera durata esaltati dalla fotografia di Jarin Blanschke (The Lighthouse è stato girato in 35 mm e in bianco e nero), il quale è stato inoltre nominato (anche) all’Oscar proprio per questo straordinario film.
La scelta di Daniele Ambrosini
Never Rarely Sometimes Always (Eliza Hittman)
Presentato e premiato al Sundance e al Festival di Berlino, il terzo film di Eliza Hittman è la conferma definitiva di un’autrice tra le più interessanti non solo dell’indie americano, ma del panorama internazionale. Never Rarely Sometimes Always è un ritratto privo di retorica, asciutto ed estremamente elegante della vulnerabilità adolescenziale e dell’aborto, ma non solo. È un film di un’onestà disarmante, in grado di raccontare una storia con una forte componente politica alle spalle con grande delicatezza e umanità, riconducendola al quotidiano, raccontando solamente le tribolazioni della sua protagonista, l’enorme impatto emotivo che la sua decisione ha su di lei, e tutto questo senza mai esplicitamente puntare il dito contro nessuno, ma lasciando alla componente più genuina dell’esperienza spettatoriale, all’empatia, il ruolo di rimettere in ordine le fila del discorso e di trarne qualcosa, che non sia una condanna in toto a tutto ciò che è opposto alla sua visione, ma un valido argomento che si basa solamente sulla considerazione del fattore umano e che lascia le componenti politiche in secondo piano. Never Rarely Sometimes Always è un film estremamente raro, e per questo tanto più prezioso, anche per l’attenzione che pone alle tematiche di genere, che si traduce in una quasi totale assenza dell’ingerenza maschile nell’esperienza del femminile. Non sono molti i film a trattare il tema dell’aborto in cui la paternità, prima o poi, non diventi centrale e non riconduca il tutto alle strutture di un mondo profondamente patriarcale. Per non parlare della vergogna, dello stigma sociale. Non c’è spazio per queste cose nel film della Hittman.
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