Il futuro del cinema indipendente è in streaming

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Di Daniele Ambrosini

Quando Netflix ha iniziato, nel 2015, a produrre e distribuire film, era un giocatore anomalo in un panorama cinematografico molto diverso da quello attuale, e con le sue strategie ha contribuito a cambiarlo radicalmente. Adesso, quattro anni più tardi, quel panorama sta per andare incontro ad un altro cambiamento epocale, ovvero l’arrivo di numerose piattaforme streaming che tenteranno di giocare sullo stesso territorio di Netflix, sia in campo televisivo che cinematografico. Quella alle porte è una vera e propria “guerra dello streaming” che si combatterà su più fronti e che è destinata a cambiare, almeno in parte, l’attuale politica della distribuzione cinematografica. In parole povere, la sala potrebbe non essere più la scelta più ovvia per distribuire un film, neanche per gli autori, soprattutto quelli indipendenti. 

Uno studio recente (che potete leggere cliccando qui) condotto sulle pellicole distribuite nelle sale cinematografiche statunitensi ha dimostrato che solamente il 17% dei film indipendenti (si intenda non prodotti o distribuiti da una major) rilasciati quell’anno hanno superato la soglia dei 100.000 dollari. Emerge da questo studio una verità assodata già da tempo: fare soldi con un film indipendente è difficile. Molto difficile. 
Tuttavia, l’imminente scontro sulle piattaforme streaming potrebbe giovare non poco a questa situazione. La battaglia avverrà su due fronti complementari: la quantità e la qualità. Ovvero, per spiccare rispetto ai competitor sarà necessario avere un catalogo ampio, che comprenda diverse tipologie di film e serie tv con diversi pubblici di riferimento, in grado di accontentare una clientela quanto più ampia possibile, ma allo stesso tempo sarà necessario avere dei titoli di alta qualità da pubblicizzare, dei titoli di spicco per ognuna delle tipologie di film proposti. E questo comporterà un ingente investimento per la diversificazione dei propri contenuti che finirà, inevitabilmente, per coinvolgere anche i prodotti indipendenti, che hanno solo da guadagnarci, sia in termini economici sia in termini di visibilità e fruibilità. 
Il duello per i contenuti è già iniziato. NBCUniversal recentemente ha pagato oltre 500 milioni di dollari per avere avere The Office sul suo servizio streaming, denominato Peacock, Netflix ha speso altrettanto per Seinfeld, HBO Max ha speso 425 milioni per Friends e oltre un milione di dollari per The Big Bang Theory, ma l’acquisizione più sorprendente dell’ultimo periodo riguarda un film, Bad Education. Il biopic di Cory Finley con Hugh Jackman e Allison Janney è stato acquistato al Toronto Film Festival, dove ha avuto luogo la sua anteprima mondiale, per la cifra record di 20 milioni di dollari, si tratta di una delle acquisizioni più costose mai fatte ad un festival, se non addirittura la più costosa. Per fare un paragone, Birth of a Nation, il film indipendente che è stato venduto al prezzo più alto conosciuto fino ad ora, era stato acquistato dalla Fox Searchlight per 17,5 milioni. 

Laura Dern e Isabelle Nélisse in ‘The Tale’ di Jennifer Fox

Viene da chiedersi come mai la HBO abbia deciso di spendere così tanto su un film relativamente piccolo, che per quanto accolto bene al festival non ha comunque catalizzato l’attenzione della stampa e del pubblico. La risposta è che nuovi distributor, che ragionano perciò al di fuori delle logiche della sola distribuzione cinematografica, hanno delle scale di valori diversi. Il piano della HBO è quello di trasmettere il film e di trasformarlo in un contendente per i prossimi Emmy (prima dell’acquisizione si parlava addirittura di Oscar, ma la HBO non è né attrezzata né interessata ad affrontare una campagna di quel genere) per poi aggiungerlo alla libreria di HBO Max, ovvero ciò che grossomodo è successo con The Tale (un’acquisizione da 7 milioni), ma più in grande. Titoli come questo, apprezzati dalla critica e premiati, renderanno il servizio ancora più appetibile, e poiché le spese per l’acquisizione non devono essere calcolate in relazione ai possibili rientri della sala, che per film simili sarebbero piuttosto limitati, l’offerta può essere sensibilmente più alta di quella di un distributore cinematografico classico.
In passato il passaggio in streaming era la fine della filiera. Un film seguiva un iter che lo portava dalla sala alla tv, poi la tv è diventata un portale online, ma così facendo buona parte dei ricavi secondari finivano nelle mani del distributore, che poteva rifarsi dei costi di acquisizione, soprattutto per i film più piccoli. Tagliando un passaggio, ci sono in gioco più soldi, per tutti. E se è evidente una cosa è proprio che le piattaforme streaming per emergere in un mondo con un’offerta sempre maggiore di servizi simili dovranno spendere molti soldi. Finora nessuno sembra avere intenzione di tirarsi indietro. 
Netflix fino ad ora ha acquistato numerosi titoli indipendenti piccoli e piccolissimi sia per la distribuzione internazionale, sia per quella locale, spesso direttamente dal mercato dei grandi festival, come il Sundance, dove negli ultimi anni ha preso molti film che hanno riscontrato un buon successo sulla piattaforma (I Don’t Feel at Home in This World Anymore, Fino all’osso), ma ha recentemente annunciato la volontà di ridurre le acquisizioni per aumentare la produzione di contenuti originali, e considerando la grande varietà di prodotti che il colosso offre, sicuramente ci saranno molte opportunità per film dal budget ridotto di trovare una casa. Negli ultimi anni, ad esempio, la commedia romantica, che sullo schermo continua a faticare, ha trovato nuova vita proprio su Netflix. 
Altri competitor, come HBO Max e Peacock, partiranno già con un buon catalogo che potrà attingere alle proprie produzioni pregresse, ma avranno bisogno di offrire prodotti sempre nuovi per mantenere alto l’interesse del pubblico, e acquisire prodotti indipendenti potrebbe diventare una pratica molto comune nei prossimi anni, perché da una parte è vero che avendo criteri di valutazione diversi, basati sulla lunga distanza, le piattaforme streaming possono permettersi di pagare più di un distributore indipendente, ma allo stesso tempo il prezzo di molti di questi film resterà comunque molto basso. Chi non seguirà questa strategia, per ora, è Disney+, che punterà tutto su produzioni proprie ad alto budget legate a proprietà intellettuali molto popolari, ma potrebbe dover cambiare strategia quando completerà l’acquisizione di Hulu e si ritroverà a dover offrire un prodotto allettante per un pubblico adulto, diverso da quello della piattaforma family friendly. Apple Tv+ partirà in sordina, ma la strategia delle acquisizioni di alto profilo a basso investimento potrebbe essere una strategia vincente pure per la società di Cupertino.
Finora il discorso relativo alla convivenza dello streaming e della sala è stato piuttosto rumoroso e ha assunto in diverse occasioni toni molto polemici, si pensi alla presa di posizione di Cannes nei confronti di Netflix e la polemica che ne è scaturita, ma l’impressione è che tutto quello che è stato detto finora è stato dettato da una prospettiva miope sulla vicenda, che non tiene conto dell’evoluzione del panorama cinematografico. Finché il problema era solo Netflix che acquistava qualche titolo dal basso profilo e lo distribuiva sulla sua piattaforma, rendendolo agli occhi di tutti un semplice film tv, o un film di qualche grande autore per competere agli Oscar grazie ad una limited release, se ne poteva discutere, ma in fondo si parlava di un solo distributore che giocava secondo le sue regole e non costituiva la norma. Con l’arrivo di altri competitor interessati a combattere sul suo stesso terreno, il discorso cambia.

Adam Driver in ‘The Report’ di Scott Z. Burns

Quest’anno, tra l’altro, ha segnato una svolta anche per Amazon, che per la prima volta ha fatto dietrofrónt  sulla sua politica di distribuzione cinematografica che privilegiava la sala, per adottare una strategia simile a quella di Netflix. Così, al contrario di Manchester by the Sea o Suspiria, un possibile contendente agli Oscar 2020 come The Report uscirà in un numero limitato di sale per poi approdare in streaming subito dopo. Fino ad ora Amazon era stata l’altra faccia dello streaming, dimostrando che un rapporto con la sala secondo le regole degli esercenti (ovvero rispettando la finestra di esclusiva di 90 giorni) era possibile, ma dando un’occhiata ai risultati deludenti del box office domestico dell’ultimo anno e mezzo, questa scelta non stupisce affatto.

Quando si parla di cinema indipendente, bisogna tenere conto non solo della statistica riportata a inizio articolo, quella che ci dice che solo il 17% dei film non distribuiti da una major supera i 100.000 dollari, ma anche del fatto che spesso e volentieri un distributore indipendente, anche uno relativamente più forte a livello di immagine come la A24, non ha le possibilità economiche o la volontà di distribuire il film in tutta la nazione, per questo, spesso, film accolti benissimo dalla critica finiscono per essere rilasciati solamente in un paio di città, in un numero di cinema limitato. Il box office è un serio problema soprattutto per i titoli realmente indipendenti e le produzioni art house, che partono ovviamente svantaggiate.

Un produttore o un autore di un film indipendente, perciò, potrebbero trovarsi davanti a nuove ed entusiasmanti novità che potrebbero permettere al loro film di avere una vetrina mille volte migliore della sala cinematografica. Banalmente, ci sono migliaia di film ogni anno che vengono presentati a importanti festival cinematografici che in sala non ci arrivano proprio, che faticano e a volte impiegano addirittura anni per trovare un distributore interessato a portarli in un paio di sale. Ne vale la pena? Ma soprattutto, per tornare alla miope polemica streaming-sala, questi film, sono forse meno “da sala” dei blasonati titoli Netflix (che, checché se ne dica, alla fine in sala passano lo stesso ed ottengono buoni risultati) come Roma o The Irishman? Perché non si tiene in conto delle opportunità che questa modalità distributiva può offrire per lo sviluppo di progetti a piccolo budget e per la loro promozione?

Elizabeth Cappuccino e Owen Campbell in ‘Super Dark Times’ di Kevin Phillips

Netflix ha acquistato e distribuito film indie e stranieri ad un pubblico globale fin dal suo lancio. In Italia, per voler fare un esempio concreto riguardante il nostro paese, ha portato Beach Rats, Super Dark Times, Swiss Army Man (acquistato da Koch Media, ma mai arrivato al cinema), Angry Indian Goddesses e Tramps, titoli molto validi ma poco appetibili per il sistema distributivo italiano, quello stesso sistema che, giusto per dirne una, ha portato in sala Blue Valentine a due anni dalla sua uscita in America in un numero così limitato di sale da fruttare un incasso totale di meno di 7.000 euro, e stiamo parlando di un film indipendente di alto livello, con una candidatura all’Oscar – traguardo a cui molti indie non possono neanche aspirare. In America gli esempi si sprecano. Tutto ciò per dire che Netflix, così come altre piattaforme streaming, di tanto in tanto “ruberanno” pure alla sala il titolo blasonato di turno, per questioni di immagine, ma offrono opportunità enormi a tanto altro cinema estremamente valido e prezioso, che solitamente tende ad essere lasciato in secondo piano nelle discussioni sulla “sacralità della sala”, e lo fanno già da tempo, senza che nessuno gliene riconosca il merito – anche se pure per quei titoli blasonati di cui sopra fanno molto, pensate a The Irishman e ai 160 milioni necessari per produrlo, non stupisce che nessuna major abbia voluto investire sul progetto, perché una tale cifra non sarebbe mai rientrata dal passaggio in sala, ma per fortuna Netflix ha altri metri di giudizio.

La sala è e sarà sempre il luogo e la modalità privilegiata per la fruizione cinematografica, ma non è detto che debba essere l’unica. Dopotutto il passaggio in sala è espressione del singolo momento, mentre invece un film in sé è un opera che resta, destinata ad essere vista secondo modalità diverse nel tempo, lo streaming offre una buona soluzione per conciliare le richieste di tempestività e la longevità di fruizione di un prodotto. E potrebbe diventare un ottimo trampolino di lancio per film che, a conti fatti, stanno guadagnando piuttosto poco dalla sala. Bad Education, con tanto di Oscar buzz, probabilmente non sarebbe riuscito a fare 20 milioni al box office americano (il film precedente di Cory Finley ne fece 3), e non avrebbe raggiunto la stessa audience che HBO Max potrà offrirgli, dopo una campagna Emmy, che aggiungerà maggiore prestigio al titolo.

Dopotutto, non è la sala che va protetta, sono i film. Perché il cinema lo fanno i film, non le strutture che li proiettano (o almeno, non solo). E qualunque autore indipendente, se lo streaming, come sembra essere da queste premesse, offrirà davvero delle soluzioni migliori a livello economico, di visibilità e spendibilità del titolo, sceglierà lo streaming rispetto alla sala, o quantomeno sarà tentato di farlo. Sui titoli più grandi resterà un certo equilibrio, ma è sul cinema indipendente, su quei titoli che permettono in modo abbastanza economico di fare numero e, allo stesso tempo, di portare qualità all’offerta complessiva, che si potrebbe giocare davvero la guerra dello streaming (quantomeno in campo cinematografico) e, per una volta, potrebbero beneficiarne tutti.