Il sotterraneo dell’androide: La bestia (1975) di Walerian Borowczyk

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Di Pietro Lafiandra

Parlare di “evocazione” per un film tanto esplicito da essere stato censurato dal mercato, rifiutato da buona parte di quei cinema europei che lo hanno additato come pornografico potrebbe sembrare un paradosso.

Non c’è niente nel film di Walerian Borowczyk che venga rifiutato agli occhi: vagine e falli equini, penetrazioni animali, intere sequenze basate su scene di sesso, di masturbazione femminile, rapporti sessuali interspecifici, ibridi uomo-animale, membri bestiali e ricchi di sperma. Ma, nonostante tutto, il motivo di maggior fascino del film che col tempo è diventato il manifesto del cinema surrealista del regista polacco — nonché l’opera con cui è stato conosciuto da gran parte del pubblico italiano  — risiede nei particolari impliciti, nella capacità di Borowzcky di spiegare allo spettatore le motivazioni psicologiche dell’eccitazione erotica dei personaggi, di far crescere sia in lui che nei protagonisti il desiderio di visualizzare quegli atti osceni suggeriti da suoni, dipinti e scritti, facendo leva sul (e rappresentando il) carattere masturbatorio dell’immaginazione e la natura animale della sessualità.

La storia che si dispiega ne La bestia non è ambientata nella Francia del XVIII secolo ma recupera i toni bucolici e leggeri della letteratura libertina francese tardo settecentesca di cui mima le movenze e la precisione stilistica, animata dallo stesso piacere per lo scandalo che aveva indotto la censura italiana a impedire la divulgazione delle copie de I racconti immorali (Contes Immoraux, Walerian Borowczyk, 1974) e che, tra sequestri e bocciature, rischiava di riservare anche a questa pellicola la medesima sorte. 
Proprio de I racconti immorali doveva inizialmente far parte La bestia, in principio pensato come un breve racconto a sfondo erotico che il regista ha presentato al Festival di Avoriaz del 1975 e che ha successivamente deciso di rendere un lungometraggio della durata di più di cento minuti per timore della censura. Una scelta che, secondo alcune firme della critica cinematografica italiana, causa più di un momento di stanca durante la visione ma che è in realtà funzionale al regista perché questi possa dilatare la narrazione e indugiare sui rapporti sessuali restituendo un’atmosfera di gioco, di eros per l’eros stesso, fantasticando sul sesso e sulla libertà di praticarlo indiscriminatamente con uomini o animali: un modo per rivelare dinamiche erotiche che senza la rivoluzione sessuale non avrebbero mai potuto essere messe in luce, come la maggiore capacità sessuale della donna e il rapporto tra masturbazione e vita contemplativa, rapporto che si dispiega ne La bestia per mezzo di suggestioni sia visive che auditive e che possono pertenere al campo musicale, figurale e scrittorio-narrativo. 
I rumori ambientali omodiegetici che fanno più volte da sfondo sonoro al film sono il primo motivo di evocazione erotica: belati lontani, rumori di grilli, i mugugni della bestia, suoni capaci di evocare immagini misteriose e sensuali che conducono l’impudica ava Romilda (Sirpa Lane) a perdersi nella foresta inseguendo un agnello e Lucy (Lisbeth Hummel) ad addentrarvisi per fotografare una struttura in pietra dalla forma chiaramente fallica. 
La sequenza iniziale si apre con il primo momento di queste evocazioni uditive: i nitriti e lo scalpicciare degli zoccoli dei cavalli accompagnano i titoli di testa su schermo nero, seguiti da una citazione di Voltaire (“i sogni inquieti sono davvero una follia passeggera”), che si spengono sulla inquadratura in piano sequenza del corpo di un cavallo seguito da Mathurin (Pierre Benedetti), uomo e animale uniti sin dalla prima scena. Il nipote del Duca Rammondelo de Balo assiste i cavalli prodigarsi in una sorta di danza sessuale fatta di peni eretti e vagine che si contraggono e si dilatano all’interno di lunghe inquadrature statiche, una danza che si conclude col coito e col successivo orgasmo del cavallo (in ogni ripresa i cavalli stanno o consumando un rapporto o preparandosi a consumarlo), come a voler dimostrare le analogie tra la sessualità umana e quella animale, la comunanza di atteggiamenti e secrezioni mostrate dal regista senza lesina di dettagli (la penetrazione, gli sbuffi d’aria dal naso, lo sperma). Il magnetismo erotico dell’auditivo non si esaurisce però nei soli suoni ambientali, ma prosegue nella colonna sonora di un pianoforte prima omodiegetico e poi extradiegetico che accompagna la fuga di Romilda nella foresta e i baci sulle labbra del curato a due ragazzini musicisti. Per Borowzcky i suoni lontani ricoprono quel ruolo di “facilitatore” dell’immaginazione di cui già parlava Leopardi ne Lo Zibaldone: così ne La bestia una nota o un fruscio possono eccitare fantasie che si concludono sempre con azioni erotiche frustrate, definitivamente liberate solo nel finale, quando Romilda (nel sogno di Lucy) si abbandona all’animale e alla sua stessa animalità.

Dalla bocca del curato (Roland Armontel), un anziano prete invitato a soggiornare al castello per battezzare Mathurin in vista delle future nozze, vengono pronunciate alcune parole che spiegano parte dei significati del film e del pensiero di Borowzcky che, è utile ricordarlo, è un feticista dichiarato. 
In una delle prime sequenze, l’anziano prete dice al padre del rampollo: “noi, fragili umani, siamo come gli animali, soffriamo le leggi della natura”. Il marchese però ribatte: “Grazie a Dio abbiamo quest’intelligenza, questo dono del cielo che ci permette di combattere i nostri istinti”. Il marchese pronuncia queste parole perché la zoomorfia ne La bestia diventa il simbolo ricusato dell’espressione sessuale dei giovani libertini che girovagano per il castello, di chi, come Mathurin, voyeur, si eccita guardando i cavalli accoppiarsi, di chi, come la nipote che amoreggia con il domestico di colore, si vede costretto a interrompere più volte il coito e infine di chi, come Lucy, si masturba agognando gli stessi amplessi violenti degli stalloni che ha provato a fotografare con la sua polaroid, fantasticando su esseri dai membri mostruosi. Uno di questi, seppur a sua insaputa, è Mathurin stesso, dotato di mani mostruose e di una lunga coda fallica, nascosti fino alla fine del film rispettivamente sotto una vistosa bendatura e sotto gli abiti. 
Dall’arrivo di Lucy in poi, l’eros si impadronisce lentamente del castello del marchese Pierre de L’Espérance (Guy Tréjan), dove vive un’aristocrazia decadente e impacciata che rifiuta la promiscuità sessuale, ancora formalmente legata a ideali integralisti sotto cui nasconde uxoricidi (il duca Rammondelo de Balo ha assassinato la moglie e il marchese minaccia di rivelarlo al mondo se a Mathurin non sarà concesso di sposare Lucy) e pederastia (il prete bacia e accarezza ripetutamente i ragazzi che invita a soggiornare nel castello), un ceto che fatica ad adattarsi ai costumi rivoluzionati del secondo novecento e che non accetta, come ne La forma dell’acqua di Del Toro, la parentela d’istinti con l’animale, più volte suggerita dalle inscrizioni dietro le tele, dai numerosi quadri sparsi per tutte le sale del maniero ritraenti bestie singole o in compagnia di giovani ragazze a loro abbracciate, se non veri e propri animali alati che penetrano fanciulle. 
Proprio i dipinti costituiscono il secondo motivo di evocazione erotica. Sono tutte quelle immagini, quelle riproduzioni che semplicemente alludono all’atto sessuale, che non vengono notate a un primo sguardo, ma predisposte da ogni parte del profilmico per colpire lo spettatore a un livello profondo, subliminale, con la loro valenza simbolica. Non solo dipinti ma anche manufatti, oggetti — quei feticci, come il bianco corsetto sfregiato, che ricordano l’avventura di Romilda — e quei simboli che possono essere indice di una sessualità perversa come la macchina fotografica, occhio protetico con cui Lucy impressiona tutto ciò che la eccita. Persino i peli della barba, il più ovvio tra i termini di paragone con l’animale (come si è già visto parlando dei feral boy, della donna scimmia/donna barbuta), diventano emblema del pornografico che il marchese stigmatizza apertamente, obbligando il figlio — l’unico tra le figure maschili a portare la barba — a una rasatura e a una messa in piega dei capelli forzata in una lunga sequenza durante la quale Borowczyk fa pronunciare al personaggio interpretato da Guy Tréjan battute come “sei stato battezzato ora. Il peccato originale è stato lavato via”, lasciando così ambiguo il riferimento delle sue parole, che potrebbe essere volte tanto al battesimo appena avvenuto quanto alla tosatura in atto. Effettivamente, l’ultimogenito oltre a essere un individuo inintelligente, primitivo e asociale, in perenne contatto con gli animali, nasconde realmente sotto i vestiti i segni ferini identificativi del maligno da cui la famiglia cerca di espiarsi mantenendo il segreto e porta quindi il segno indelebile di quello che il padre considera un peccato originale che lo avvicinerebbe più a un animale che a un uomo. 
Il terzo tipo di evocazione erotica pertiene al rapporto amoroso tra Lucy e Mathurin, un amore nato per via epistolare che si costruisce quindi tra le righe di lettere su cui Lucy sogna anche una volta giunta al castello, insediatasi nelle sue stanze, dopo che le viene recapitata una missiva di Mathurin che l’uomo ha fatto accompagnare da una rossa rossa attraverso il messo di colore. 
Scrive Mathurin: 
Cara Lucy, mi permetta di disturbare il suo riposo. Sarei felice se lei scendesse di sotto e ci incontrassimo con sua zia e mio padre. Non può immaginare la gioia che sento per quello che sta per succedere. Il mio cuore batte. Vostro Mathurin”. 

La ragazza legge la lettera, apparentemente innocente, ad alta voce, facendo scorrere i petali della rosa lungo la pelle del volto, profondendosi in ansimi e sospiri, vistosamente eccitata, caricandola di un’inflessione sessuale che stona con le parole scritte da Mathurin. Poi, con uno stacco, la macchina da presa passa dal primo piano del volto di Lucy al dettaglio di una mannaia stretta nella mano del cuoco di corte che si abbatte su un grosso pezzo di carne rossa. Questo accostamento tra il primo piano di Lucy con la rosa e la carne macellata, svela l’ansia sessuale della ragazza, quella voglia animale, carnale che tramuta anche i simboli del romanticismo più puro in strumenti di (auto)erotismo, una voglia che la zia di Lucy, rappresentante di un’alta borghesia che ancora addita qualsiasi tipo di atteggiamento lussurioso, cerca di allontanare attraverso il matrimonio con il rampollo. Se lei cerca da una parte di trovare contromisure al richiamo incessante della foresta che esercita un fascino irresistibile sulla nipote, dall’altra il padre di Mathurin tenta di sfruttare l’unione tra i due giovani per salvare economicamente la famiglia in rovina. Il matrimonio emerge quindi come un’istituzione ipocrita sotto cui nascondere necessità economico-sociali, desideri sessuali malvisti in una società ancora puritana, nonché, nel caso specifico della famiglia d’Esperancé, un mezzo di redenzione agli occhi dell’alta società. 

Sebbene tenti in ogni modo di mantenere alta la propria nomea, la casata de L’Espérance è  malvista in società e ostracizzata dal fratello stesso del duca, ora Cardinale a Roma, chiamato per officiare le nozze ma che rifiuta persino il solo contatto telefonico col fratello, considerando la sua stessa famiglia degenere a causa dell’ambiguo rapporto che la lega sessualmente agli animali, uno in particolare, una bestia ibrida tra l’orso, l’uomo e il facocero, un essere incredibilmente simile ad alcune delle illustrazioni usate per dipingere la Bestia nella fiaba di Madame Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve. 
Una maledizione grava infatti sulla famiglia secondo le parole del duca: Mathurin, se prendesse moglie, morirebbe, il che porta il vecchio a opporsi aspramente alle nozze e a essere ucciso dal marchese dopo le eccessive reticenze nel chiamare il fratello cardinale. Il duca aveva fino al momento della sua morte sperato che l’unione tra Lucy e Mathurin non sarebbe avvenuta, conscio del maleficio che sarebbe stato attirato sul ragazzo dal comportamento di Romilda, un’antenata che nel 1700 aveva ucciso la bestia (molti critici hanno trovato affinità con la leggenda del folklore francese della “bestia del Gévaudan”) sfinendola sessualmente nel bosco, inizialmente spaventata dalla sua furia ma riscopertasi eccitata dalle fattezze ferine.
Nel castello, Lucy ritrova un manoscritto impolverato dove è trascritta meticolosamente l’avventura sessuale di Romilda. Il racconto la turba e, quando si corica, ricostruisce in sogno l’accaduto. Romilda, come si scriveva, viene attratta da un agnello disperso nei meandri della foresta. Un simbolo di innocenza come quello di un agnello — che potrebbe essere letto anche in chiave cristiana — non avrebbe però potuto sopravvivere molto all’interno delle fronde demoniache della foresta. Qui infatti Romilda lo trova sventrato dalla bestia della quale, mentre si avvicina alla donna, Borowzcky sottolinea il fallo eretto e di forma meccanica, simile a una pistola o al fallo metallico di Tetsuo: The Iron Man (Tetsuo, Shinya Tsukamoto, 1989). La donna viene rincorsa per il bosco fino all’albero dove si appende per cercare rifugio. Qui, la bestia tenta di farla preda sessuale ma lei, casualmente, lo stordisce con una masturbazione praticata coi piedi, riuscendo di nuovo a scappare.

La bestia è una sorta di rivisitazione pornografica delle dinamiche de La bella e la bestia (la paura per il corpo animale e la sua successiva accettazione di cui parlava Marchesini) e Borowczyk addirittura simboleggia questa sua chiave di lettura con la scena successiva. 
Lucy si sveglia dal sogno inquieta ed eccitata dalle immagini prodotte dalla sua mente. Esce dalla camera e trova Mathurin dormiente in una stanza attigua. Prova a svegliarlo, probabilmente desiderosa di consumare un rapporto ma, continuando questi a dormire, la donna sente l’impulso irrefrenabile di tornare nel letto e masturbarsi. Per farlo, utilizza la rosa che Mathurin le ha regalato — rosa che era il fulcro della narrazione de La bella e la bestia — prima strappando alcuni petali e poi inserendo il fiore nella vagina. La cinepresa che inizialmente si era soffermata con un piano sequenza che seguiva il corpo nudo della ragazza stacca su un particolare tra le sue gambe e per diversi secondi riprende lo sfaldarsi della corolla e il progressivo “ingerire” i petali da parte della vagina. 
Si passa quindi dal sogno alla fantasia erotica liberata, perché quando la macchina da presa torna a mostrare l’avventura di Romilda, questa si sta dimenando, urlante, tra la grinfie del mostro che poi la riversa su un masso muschiato, priva della parrucca da nobile, col caschetto biondo arruffato e con addosso solo una leggera vestaglia. Poi la bestia con il suo fallo enorme cerca di penetrarla da dietro, stringendola per i fianchi. Borowzcky riprende la foresta con delle soggettive traballanti per rappresentare lo spaesamento di Romilda e la foga che la bestia mette nella penetrazione. La scena viene interrotta da un’inquadratura prima facie inutile di un sasso sul quale è abbandonata la scarpetta azzurra della donna, una scarpa troppo simile come stereotipo a quella in cristallo di Cenerentola per non pensare che il regista la inquadri per un motivo ben preciso, considerando quanto l’immaginario fiabesco abbia influenzato l’opera. La scarpa di cristallo veniva dimenticata da Cenerentola al ballo perché, scoccata la mezzanotte, il vestito, il cocchiere e la carrozza si sarebbero tutti trasformati, trascinando la ragazza alla sua dimensione originaria. Così anche per Romilda  c’è un salto indietro, una regressione allo stato brado, un tornare all’animalità che segue la fuga da un castello e la perdita di una scarpetta. 
Inizialmente la donna sembra dolorante e spaventata dal rapporto a cui è costretta ma, solo dopo l’inquadratura della scarpa, inizia a passarsi la lingua tra i denti, ad afferrare il lembo del vestito, a sbuffare come facevano i cavalli nella prima sequenza per poi concedersi totalmente all’animale e persino ribaltare il suo stato di dominata, diventando dominatrice. Dopo che la bestia ha avuto il primo orgasmo, Romilda la obbliga ad averne a ripetizione continua, masturbandolo prima con le mani, poi con i piedi, cavalcandolo e letteralmente lasciandosi ricoprire dal suo copioso sperma, prendendolo con i palmi e spargendoselo sul corpo, sulla faccia e bevendolo, ripercorrendo insomma gran parte delle forme della pornografia. Con un montaggio parallelo Borowzcky mostra la bestia, stremata, stramazzare al suolo in preda a un attacco di cuore e la scarpetta cadere dal masso.
Le inquadrature del rapporto che dovrebbero teoricamente inorridire, sono trattate con una tale leggerezza dal regista che anche il sostare della telecamera sul pene del mostro, colto nell’atto di perdere enormi quantità di sperma restituiscono invece una sorta di serenità dolce e giocosa. Grazie a una particolare attenzione del regista per i dettagli, il corpo nudo della bestia, coi suoi peli e le sue deformità, sembra antitetico e assai meno mostruoso dei corpi umidi e unti dei borghesi buñueliani impettiti, nascosti nei loro vestiti. Tra le luci cristalline della foresta, tra gli alberi, i ruscelli e i sentieri lubrichi si respira un’aria di rinascita dove i desideri possono essere liberati e compiuti, mentre tra le luci lugubri, la polvere e le stanze fatiscenti del castello i coiti sono interrotti, castrati, mutilati. Il sesso con l’uomo-animale, libero da ogni finalità che vada oltre il sesso stesso, è l’unico atto puro in mezzo alle cospirazioni, gli omicidi di chi allontana l’animale per non dovercisi rispecchiare. 
Così, quando Lucy si risveglia dopo aver ucciso l’animale in sogno e trova Mathurin morto nel suo letto, dopo aver quindi liberato il potere distruttivo del sogno erotico, non le resta che scappare dal castello che ha sconvolto avvolta da una pelliccia mentre il cardinale, giunto alla magione, accarezza Mathurin e condanna gli accoppiamenti interspecifici.
La bestialità, sarebbe a dire il copulare con gli animali, è il crimine peggiore, perché degrada l’uomo creato nell’immagine di Dio, il più contrario alle leggi della natura. È questo il motivo per cui il Levitico punisce con la morte non solo gli uomini e le donne peccaminose, ma anche la bestia stessa. Le carezze impudiche a una bestia non devono essere dimenticate durante la confessione. Ad esempio, come se per contaminare se stessa, una donna si lascia leccare la vulva o se lei stessa tocca le parti sessuali di un animale fino a quando eiacula. È per questo che Vernier avvisa i confessori di chiedere alle donne, specialmente a quelle di natura lussuriosa, se hanno avuto rapporti vergognosi con un animale. In questo modo, spesso segreti vergognosi vengono a galla”.


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