Il sotterraneo dell’androide: L’isola delle anime perdute (1932) di Erle C. Kenton

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Di Pietro Lafiandra

All’inizio degli anni ’40 la Universal Pictures, nella fase di pre-produzione del The Wolfman di Waggner interpretato da Lon Chaney, manifestò diverse perplessità in merito alla realizzazione del film. Perplessità che David J. Skal ascrive agli strascichi polemici che seguirono la produzione e la distribuzione del primo adattamento de L’isola del Dottor Moreau: “qualche anno prima, Island of Lost Souls aveva offeso la sensibilità dei fondamentalisti con le sue immagini di uomini e animali fusi assieme”.

Il film fu per questo bandito per venticinque anni in Inghilterra con la motivazione che il suo tema portante fosse una sfida all’ordine naturale. Il divieto di proiezione si estese nel tempo anche in Lettonia, Nuova Zelanda, Olanda, Paesi Bassi, Singapore, India, Sud Africa, Tasmania, Germania.
Nonostante oggi sia una classico, la pellicola ottenne generalmente pessime critiche da parte della stampa; Variety fu una delle poche testate a predirne il futuro successo e Charles Laughton, che diede un’interpretazione luciferina e compulsiva del Dottor Moreau (descritta dall’Herald Tribune come “un’avvincente combinazione di bambino, pazzo e genio”), odiò a tal punto la parte da non “apprezzare più una visita allo zoo”.
Lo stesso Wells criticò aspramente il film di Kenton perché, a suo dire, trasformava Moreau da un visionario ben intenzionato a un sadico tiranno. 
È innegabile che la rappresentazione data di Moreau nel romanzo sia più vicina a quella demiurgica e paciosa restituita da Marlon Brando nel remake del 1996, ma è altrettanto vero che l’interpretazione di Laughton marcatamente (e volutamente) eccessiva, pur nella sua compostezza ed economia espressiva, oltre che essere chiaramente dettata da logiche di sceneggiatura (la necessità di un preciso, malefico antagonista) non stravolge il carattere aggressivo-scandalistico del materiale di partenza se è vero che lo stesso Wells ha definito il romanzo “un esercizio di blasfemia giovanile”, ricco, tra l’altro, come nel film, di dettagli crudi ed estremamente realistici. 
Edward Prendick, l’unico sopravvissuto di un naufragio, è salvato da un battello che sta trasportando un serraglio di animali selvaggi. Presto si ritrova incagliato in un’isola inesplorata del Pacifico con lo strano vivisezionista Doctor Moreau, che con i suoi esperimenti ha infranto le leggi della natura, trasformando le bestie in umani con risultati horrorifici. 
Nella trama del romanzo di Wells risuonano echi dell’Utopia di Thomas More (1516), uno dei romanzi cardine per la formazione dell’autore. Un’isola dispersa che, come sottolineato nel film del 1932 “non si può trovare sulla mappa” e che viene scoperta per serendipità attraverso un viaggio in mare sia da Raffaele Itlodeo che da Edward Prendick, una civiltà potenzialmente utopica che cova in seno (nella limitazione delle libertà individuali, nello schiavismo) le radici della distopia, lo spostamento geografico compiuto dall’autore per rappresentare strutture, aberrazioni e desideri della società di appartenenza (quella londinese per entrambi), l’intento morale della narrazione. 
Wells ha grande dimestichezza con le narrazioni utopiche/distopiche e la sua bibliografia comprende svariate opere di critica sociale composte a partire dall’incontro col diverso, in particolare La macchina del tempo (The Time Machine, 1895) e La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1897). I vari adattamenti de L’isola del Dottor Moreau hanno quindi concentrato la loro attenzione sulla struttura sociale e sulla questione religiosa che emerge dal romanzo, articolata di volta in volta nel rapporto re – popolazione, dio – fedeli, schiavista – schiavizzati, padre – figlio. 
Per addentrarsi in un ritratto della società e delle regole stabilite da Moreau sulla sua isola non si può prescindere da alcune questioni legate all’ontologia dell’uomo-animale: cosa distingue le bestie dagli uomini? È il nostro corpo a dettare la nostra natura o sono le facoltà cerebrali? Quali diritti ha il creatore sulla sua creatura? Esistono differenze corporali tra uomo e chimera che ne giustifichino una maggiore o minor dignità morale? Questioni che convogliano nella comanda che attraversa indiscriminatamente tutti gli adattamenti: are we not men?
Non siamo uomini?” si chiede l’Enunciatore della legge (Bela Lugosi) (una serie di comandamenti che il Moreau-dio ha imposto agli ibridi per mantenerne il controllo): secondo una prospettiva meccanicistica, sì. Con maggior precisione: non sono gli uomini a essere anch’essi animali?
Il Dottor Moreau concepisce le sue creature (animali resi uomini attraverso innesti, esportazioni d’organi e trapianti) come un progresso necessario della specie di matrice darwinista che, nel corso dei secoli, sarebbe comunque avvenuto e che lui avrebbe semplicemente accelerato di dieci mila anni, sostituendosi a Dio nell’atto generativo e nell’atto di dominio dell’universo (l’isola), l’unico conosciuto dagli ibridi.
Padre devo farti una domanda. Che cosa sono io? Ti chiamiamo padre. Ma tu non sei come noi” chiede una delle creature ribelli al Moreau/Brando del film del ’96, riconoscendogli uno statuto divino. La domanda ontologica che perseguita gli uomini-bestia è la stessa che assilla l’uomo ma esacerbata dalla consapevolezza della differenza estetica tra creatore e creatura, un dettaglio che ribalta l’assunto biblico della somiglianza tra Dio e l’uomo.
Cosa sono quindi gli ibridi? Hanno un’anima? La capacità di provare emozioni ed empatia li rende umani?
Si deve considerare innanzitutto la scelta accuratissima della traduzione del titolo da The Island of Doctor Moreau a The Island of Lost Souls: l’isola delle anime perdute, appunto. 
In un passo del Leviatano (1651) Hobbes nega, o quanto meno non prende in considerazione, l’esistenza di un’anima accumunando il corpo umano e le sue strutture meccaniche a tutti gli altri corpi, con esplicito riferimento agli animali: 
“che cos’è il cuore se non una molla? Che cosa sono i nervi se non corde, che cosa sono le articolazioni se non altrettante rotelle che distribuiscono il moto a tutto il corpo, secondo la volontà dell’artefice?… la vita non è nient’altro che un movimento degli arti il cui principio è interno ad una qualche parte principale del corpo”.
La visione di Moreau, progressista, evoluzionista, amorale, spinge verso questa direzione. L’uomo è anch’esso un animale. Un corpo è sempre e comunque un corpo. Gli istinti che regolano la vita animale sono gli stessi che regolano quella umana. La chimera umana può essere considerata un uomo o, quantomeno, può diventarlo attraverso l’imitazione forzata. 
Nel romanzo il Dr. Moreau discute le possibilità dell’impresa con Prendick (Parker nel film), suo ospite: “ma gli istinti?” chiede l’uomo, “gli istinti possono essere modificati. Come educatori non stiamo facendo niente di più. Non abbiamo forse trasformato l’istinto alla guerra in un coraggioso sacrificio e i bisogni sessuali nella castità?” risponde il dottore.
Ma come può un’umanità viziosa e istintuale essere il modello d’ispirazione e aspirazione per la società degli uomini – animale?
Sull’isola i protagonisti umani regrediscono a uno stato primordiale, alla riscoperta delle pulsioni che la società “civilizzata” — quella britannica, nello specifico — opprime (non a caso Moreau si vede costretto a trasferire le sue ricerche sui trapianti tra animale e uomo da Londra all’isola dopo le rimostranze del mondo della medicina).
Gli istinti dominano i personaggi fino al finale del film, in cui una parziale redenzione di Parker e di Montgomery non riesce comunque a sollevare lo spettatore delle azioni “animali” a cui ha dovuto assistere: l’istinto erotico/sessuale domina il protagonista non appena sbarcato sull’isola, dimentico del fidanzamento con Ruth Thomas (Leila Hyams) — la donna-casa, inconsapevole rappresentazione dell’oppressione urbana e del “mondo civile” che, però, lo raggiungerà per salvarlo — e irretito dalla donna-pantera (Kathleen Burke) — la donna-selva che fomenta in lui l’istinto sessuale. 
Gli istinti di sopraffazione e di onnipotenza dominano invece il Dr. Moreau e Montgomery: il personaggio interpretato da Charles Laughton governa in maniera ossessiva ogni aspetto dell’isola, dalle leggi, all’evoluzione, alla riproduzione, mentre il personaggio interpretato da Arthur Hohol cede al fascino del potere, eseguendo voleri e ordini di Moreau. 
Non credendo nell’esistenza dell’anima, per il dottore fondere le due specie non significa altro che il perseguimento di uno sviluppo della razza umana e l’esercizio della sua unica fede: quella nel progresso. Far convivere uomo e animale nello stesso corpo vuol dire per lui soddisfare i propri istinti di dominio sulla natura, sostituire se stesso al principio della creazione e quindi giungere alla realizzazione del bisogno umano di elevarsi a Dio, ma vuol dire anche rinunciare alla componente morale con il quale il sentire comune identifica l’essere umano. 
Una scena dall’adattamento del 1996.
Moreau si propone quindi come non-uomo, come essere spirituale (una dimensione indagata con più precisione da Marlon Brando) al di sopra del mondo animale in cui convivono bestie e uomini e a cui è concesso il potere decisionale sulla vita, sulla morte e persino sulla sessualità: una delle mire, delle sue “sottotrame”, è infatti quella di spingere Edward Parker e Lota (la donna-pantera) a consumare un rapporto erotico perché quest’ultima si elevi definitivamente al rango di uomo attraverso le sue emozioni. 
Ma qual è lo specifico estetico dell’animale e quale quello dell’uomo? E come convivono tematicamente e cinematograficamente queste due dimensioni nelle chimere di The Island of Lost Souls? L’essere animale sembra connotato da un elemento fisico specifico: i peli, una tradizione che sembra risalire ai primi circhi ambulanti dove le persone villose erano presentate come uomini animaleschi.
Ricorda Laughton: “ogni nuovo personaggio orrorifico e mostro aveva più peli di quello prima. I peli erano disseminati ovunque. Sognavo peli. Ho anche pensato di avere peli nel mio cibo”. Se negli adattamenti successivi si presenteranno anche diverse creature glabre umanoidi è sorprendente notare l’effettiva quantità di peli di cui era composto il makeup dei mostri nell’adattamento originale per mano di Charles Gemora e Wally Westmore, di cui esemplare perfetto è il volto dell’Enunciatore della legge interpretato da Bela Lugosi “completamente obliterato di peli”. 
Uno dei grossi difetti dei film di Don Taylor e di Frankenheimer è quello di aver perseguito aprioristicamente la spettacolarità, ricercando un character design fantascientifico per gli abitanti dell’isola, mentre nel film di Kenton è sufficiente il moltiplicarsi esponenziale di un fattore fisico che, quotidianamente, rimanda l’uomo alla sua parentela con la bestia per produrre il senso dell’animalità, tant’è vero che “le giovani donne, quando scoprono quelli che hanno imparato a considerare peli in eccesso — tra i seni, sul labbro superiore, sotto le ascelle o sulle gambe — possono avere dubbi sulla propria femminilità oltre che sulla propria qualità di esseri umani”.
Differentemente dai futuri remake, dove gli effetti grafici assimileranno il loro corpo più a quelli di esseri alieni — solo una delle tante motivazioni per cui lo spettatore fatica a commuoversi per le paure e la rivolta degli ibridi — , è per il carattere antropomorfo delle creature di Moreau che lo spettatore riesce a empatizzare con la loro condizione di sottomissione e, di riflesso, a sviluppare un’idiosincrasia per il corpo imbolsito e levigato, tipicamente occidentale, del dottore.
In contrasto coi volti pallidi, bianchi e scavati di Richard Arlen e Arthur Hohl e con quello olivastro e levigato di Laughton, i volti e i corpi degli ibridi sono villosi, lupeschi, scimmieschi. È attraverso le falangi ricoperte di peluria della donna – pantera che Edward si accorge della sua essenza animalesca ed è grazie al particolare dei crini sull’orecchio di quello che Montgomery definisce “un suo servo” che inizia ad addentrarsi (assieme allo spettatore) nelle oscure trame della storia.  
Curioso, ma non casuale, che l’elemento distintivo della bestialità appaia per la prima volta su un orecchio e che il proprio dell’uomo sia invece connotato dallo stesso Moreau con la voce umana:
Oh, richiede molto tempo e infinita pazienza farli parlare” confessa a Edward in uno splendido primo piano. 
L’uomo era rimasto turbato dall’aver sentito parlare quelle che definisce “cose” (e che nel romanzo descrive come “contro natura”, a riprova della sua morale antitetica a quella di Moreau) e chiede delle spiegazioni al dottore che, in tutta risposta, si vanta di quella che è secondo lui la sua “prima, grande conquista”: il discorso articolato controllato dal cervello. I mercanti cinesi che un tempo contraffacevano i freaks perché sembrassero animali recidevano loro le corde vocali perché diventassero muti; Moreau, compiendo il processo inverso, dona loro la parola. 
La voce degli ibridi è grumosa, ferina, spesso roca, plasmata perché possa assomigliare più a un grugnito che a una canonica voce umana, in contrasto con l’accento cristallino e marcatamente britannico di Laughton/Moreau. 
È attraverso la parola che questi riesce a instaurare una tirannia per governare l’isola. L’estremo impegno da lui proferito nel far sì che gli animali potessero parlare può essere letto a partire dal desiderio, dalla necessità di addomesticamento delle bestie stesse. Sempre nel Leviatano Hobbes afferma che “è impossibile stringere patti con gli animali, perché mancano della possibilità di parola con la quale possano esprimere la propria volontà” e che dato che “la condizione degli uomini […] è uno stato di guerra di tutti contro tutti […] di conseguenza ognuno è governato dalla sua propria ragione. Per tutto il tempo infatti in cui verrà mantenuto questo diritto di natura, non vi potrà essere nessuna sicurezza per nessuno, per quanto possa essere molto forte. E dunque è un precetto, o regola generale della ragione: che bisogna ricercare la pace, finché c’è la speranza di ottenerla”. 
Se gli ibridi non fossero dotati di parola non avrebbero la capacità di intendere e quindi di stipulare i “contratti” che li sottomettono al volere di Moreau, il quale, per mezzo delle sue menzogne e delle sue imposizioni, esercita il potere spirituale e il potere temporale, due dimensioni che si incarnano ne La casa del dolore (The House of Pain), una sorta di inferno cattolico in terra dove promette a Lota di estirpare del tutto l’animale che è in lei, dove verrà ucciso, in un contrappasso dantesco, con gli stessi attrezzi con cui operava gli animali per renderli uomini e dove viene torturato chi trasgredisce la “legge” (ing. The law), la lunga serie di riti, divieti e comandamenti che creano un ordine costituito stabile.
Queste leggi vengono recitate nella parte centrale del film come un rito magico ancestrale. Per ripristinare la calma tra gli uomini – bestia, insospettiti ed eccitati dalla presenza di Edward, il dottore urla: “what is the law?” (it. qual è la legge?).

La legge prevede: 

1) Non camminare a quattro zampe

2) Non mangiare la carne

3) Non versare sangue

Precetti che sembrano voler elevare le (considerate) bestie a rango di uomini, educarle al vivere civile per evitare lo stato di guerra e di “tutti contro tutti” che, però, contraddittoriamente, è lo “stato naturale” dei protagonisti e quindi dell’uomo. 
Il film evoca l’idea di guerra perenne tra gli uomini sin dalle prime inquadrature sulla nave che porterà Montgomery e Parker sull’isola dove, in una fotografia oscura e nebbiosa, avvengono le prime faide e i primi scontri fisici tra i marinai.
Moreau vorrebbe mantenere la pace per evitare la rivolta ma egli stesso si muove all’interno di una grossa contraddizione: quella di un uomo violento (proprio in quanto uomo) che vuole educare una specie, una “razza”, alla pace al solo fine di poterla sottomettere al volere proprio e della ricerca scientifica, tant’è che “gli esperimenti di minor successo” vengono schiavizzati e costretti ai lavori forzati (una delle modifiche della trama che deve aver disturbato Wells). 
La ricerca dell’armonia nasce quindi da un atto oppressivo, il che porta a identificare il secondo carattere distintivo dell’uomo: l’arma. Un’ appendice alla stregua di un’escrescenza naturale del corpo incarnata dalla frusta che Moreau brandisce più volte nel corso del film e che fa schioccare con rabbia per ammansire gli ibridi. Nel film del ’96 le armi seguono il progresso tecnologico e sono rappresentate dal fucile di precisione di Montgomery (Val Kilmer) e dai chip ad alto voltaggio inseriti sotto la cute delle creature di Moreau con i quali l’uomo seda ogni tentativo di rivolta. 
A tratti banalizzando la grande quantità di contenuti nel romanzo di Wells, sia il film del ’77 che quello del ’96 focalizzano la propria attenzione sull’istinto violento dell’uomo con delle continue analogie uomo-bestia, cristallizzate nei titoli di testa del film di Frankenhaimer in cui degli occhi umani si alternano a degli occhi felini in un montaggio parallelo molto serrato. 
L’umanità delle bestie, e la conseguente bestialità degli uomini, viene — forse un po’ sommariamente — identificata nel “tutti contro tutti” hobbesiano, come una matrice comune che è condicio sine qua non dell’esistenza terrena e di cui si fa portavoce l’ibrido capo della rivolta nel remake del 1996 quando, dopo aver imbracciato una pistola e aver ucciso Montgomery, urla: “now we are men”; “ora siamo uomini”.


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