Il ritratto del duca – La recensione del film con Jim Broadbent e Helen Mirren

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Di Giuseppe Fadda

Oltre un anno e mezzo fa, Il ritratto del duca, ultima fatica di Roger Michell (regista di Notting Hill e A Royal Weekend), fu presentato al Festival del Cinema di Venezia, riscuotendo un buon successo da parte dalla critica. Da quel momento in poi, causa pandemia, la sua uscita in sala è stata rimandata di volta in volta: settembre 2020 è diventato settembre 2021, mese in cui Michell si è spento all’età di 65 anni, e ancora nessuna uscita. Fino ad ora: dopo questo percorso travagliato, Il ritratto del duca è arrivato nelle sale della Gran Bretagna tre giorni fa e uscirà tra pochi giorni anche in Italia. Ebbene, dopo tanto attesa, si può parlare di un risultato soddisfacente? Sì e no. No perché forse c’era un modo più complesso, più sfaccettato, più pregnante di sviluppare l’affascinantissima premessa. Sì, perché malgrado scelga la strada più semplice è una strada che Michell sa percorrere bene, ed è una degna conclusione della sua carriera. 

La trama del film si basa su fatti realmente accaduti. Protagonista delle vicende è Kempton Bunton (Jim Broadbent), un uomo di sessant’anni che vive a Newcastle con la sua famiglia. Impiega metà del suo tempo a cercare un lavoro, dal momento che resiste poco in qualunque impiego; l’altra metà la impiega a scrivere drammi, puntualmente rifiutati da qualsiasi potenziale acquirente, e a combattere l’ingiustizia sociale. L’ultima sua battaglia è affinché la BBC abolisca il canone televisivo per gli anziani e i veterani di guerra. Quando Bunton viene arrestato per non aver pagato il canone in segno di protesta, l’esasperata moglie Dorothy (Helen Mirren) lo supplica di porre fine alle sue battaglie, per lei nient’altro che follie. Kempton promette, a patto di poter fare un viaggio a Londra in un ultimo (inutile) tentativo di attirare l’attenzione del Parlamento. Proprio quando Kempton è nella capitale, il famoso ritratto del duca di Wellington per mano di Francisco Goya viene rubato dalla National Gallery. Coincidenza? Ovviamente no, ma va dato atto agli sceneggiatori, Richard Beam e Clive Coleman, di aver messo in piedi una solida costruzione narrativa, in grado di garantire persino qualche sorpresa e colpo di scena. Tuttavia, anche se i risvolti della trama riservano qualche occasionale, piacevole momento di stupore, non si può dire che il film riesca mai a evitare una certa prevedibilità, soprattutto nei personaggi di contorno – l’abile, arguto avvocato dal sorriso smagliante, il temibile procuratore che non ha mai perso una causa, le forze investigative drasticamente incapaci, e altri archetipi che così spesso ricorrono in film “basati su una storia vera”. 

Il problema de Il ritratto del duca è che sembra seguire sempre terreni già tracciati: le battute sono divertenti, a volte argute, mai particolarmente brillanti; i drammi interiori dei personaggi, in primo luogo il lutto della perdita di una figlia che grava sui due protagonisti, si svolgono e si risolvono in un modo che sarebbe scontato o stucchevole se i due attori non fossero sempre così in forma; e soprattutto la rappresentazione del personaggio di Bunton è, nel complesso, un po’ semplicistica, quasi buffonesca. La sceneggiatura sembra voler tenere il piede in due staffe, cioè tra il desiderio di abbracciare lo spirito radicale e contestatore di Bunton e il timore di rischiare, di scomodare argomenti troppo delicati. In ultima analisi, quello che resta è un ritratto tiepido, timoroso: gran parte della carica rivoluzionaria delle prese di posizione di Bunton rimane mitigata e annacquata dal ritratto delle sue innocua, stravagante eccentricità, gran parte delle sue idee finiscono per essere banalizzate in frasi fatte. 

In definitiva, si può dire che il materiale di partenza offriva delle possibilità in più rispetto a quelle effettivamente sfruttate da Michell, Bean e Coleman. Tutto è un po’ troppo semplice, un po’ troppo pulito e un po’ troppo scontato per essere veramente memorabile. Ma un film in fondo va giudicato per quello che è, non quello che avrebbe potuto essere. E quello che è non è, malgrado tutto, un fallimento: la pellicola scorre egregiamente e gradevolmente, soprattutto per merito dei due meravigliosi protagonisti

Poco importa che potrebbero interpretare questi ruoli a occhi chiusi: che stiano battibeccando affettuosamente, che stiano danzando dolcemente nella loro piccola cucina o che si stiano scannando a vicenda pur di non mettere a nudo il proprio dolore, sono sempre un piacere da guardare. Broadbent, in particolare, cattura ogni sfumatura del personaggio: la sua stravaganza, la sua bontà di cuore, il suo altruismo idealista che lo porta a identificarsi con le sofferenze di tutti gli uomini ma anche quella testardaggine che lo porta a ignorare la sofferenza dei suoi vicini più prossimi. E Mirren ricopre con dignità, umorismo e dolcezza un personaggio che di per sé non brilla di originalità. Il ritratto del duca non sarà un capolavoro ma ci offre la possibilità di vedere due artisti di prima classe che non solo lavorano insieme ma sembrano anche divertirsi da matti. E questo, da un certo di vista, è più che abbastanza.  

VOTO: ★★½

Il ritratto del duca uscirà in sala a partire da giovedì 3 marzo