Klaus – La recensione del film animato natalizio di Netflix

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Di Daniele Ambrosini
Sergio Pablos, creatore di Cattivissimo Me, dopo anni passati a ricoprire i più svariati ruoli in alcune delle produzioni animate di maggiore successo del secolo, ha finalmente fatto il suo esordio alla regia con Klaus. La fiaba natalizia prodotta da Netflix è un rarissimo esempio di film in animazione tradizionale prodotto da uno studios americano, non se ne vedeva uno dai tempi de La principessa e il ranocchio (era il 2009), è un piccolo gioiellino che ci fa vedere quante possibilità offra ancora oggi questo tipo di animazione e quanto potrebbe progredire se solo si tornasse a investirci, ma soprattutto è un film riuscitissimo che ha il sapore di un piccolo cult. 

Protagonista di Klaus è Jesper, un giovane viziato che si distingue per essere il peggior studente della Regia Accademia Postale, dove il padre lo ha mandato nella speranza che un giorno possa subentrargli ereditando il business di famiglia. I risultati estremamente deludenti del recidivo Jesper spingono il padre a dargli un ultimatum: dovrà avviare un ufficio postale nella sperduta e inospitale isola di Smeerensburg e dovrà consegnare almeno seimila lettere nel corso di un anno per non essere diseredato. L’unico problema è che la popolazione del luogo è impegnata in una lotta intestina tra due fazioni e nessuno vede di buon occhio il nuovo postino, così Jesper fatica a raccogliere anche solo una lettera da consegnare. Questo finché non conosce Klaus, un uomo che vive isolato nei boschi con una insolita collezione di giocattoli. La leggenda tra i bambini diventa questa: se scrivi una lettera a Klaus, lui ti regalerà un giocattolo. Inizia così la storia delle origini di Babbo Natale che porta alla prima vigilia e alla nascita delle tradizioni che accompagnano la festa. 
Klaus è un film sfaccettato, che prende quello che poi è il punto centrale dell’intera operazione, ovvero la creazione della festività più amata al mondo e del suo rappresentante, molto alla larga, rendendo protagonista un altro personaggio. Un personaggio a pelle abbastanza antipatico, egoista, superficiale, cinico e chi più ne ha più ne metta, una specie di piccolo Scrooge che compirà un percorso di redenzione proprio grazie all’esperienza vissuta con Klaus, una versione moderna, tosta, autoritaria e per lo più silente di Babbo Natale. Che le azioni del protagonista siano mosse, in un primo momento, solamente dai propri interessi personali è evidente, e proprio quell’egoismo dettato da necessità ed alimentato dalla mancanza di scrupoli, è ciò che fa andare avanti la storia e la porta all’inevitabile punto di rottura. In questo c’è un po’ di quella prevedibilità che è l’essenza del Natale stesso; sappiamo dove si arriverà, ma questo non vuol dire che il percorso per arrivarci non sia interessante o che il punto d’arrivo, per quanto prevedibile, non sia soddisfacente. 
Mettendo al centro della narrazione principale un eroe improbabile di Dickensiana memoria, Klaus finisce per risultare un pochino dispersivo e per lasciare indietro Klaus di tanto in tanto, ma sinceramente poco importa quando il risultato finale è un film dolce, simpatico, intelligente come effettivamente è il debutto alla regia di Sergio Pablos. In grado di reinterpretare in chiave originale una delle (fittizie) figure pop più note sulla faccia del pianeta e di creare un’esperienza visiva e narrativa appagante e coinvolgente, Klaus è un film destinato a diventare un piccolo cult delle festività, uno di quelli a cui tornare ogni Natale, che però non è solamente un mero veicolo per l’annuale dose di sorrisi a buoni sentimenti, ma un’opera affascinante, strutturata e intrigante che, per quanto imperfetta, è frutto di una grande passione, quella passione che si nasconde dietro la tenacia e la minuzia di centinaia di artisti che collaborano per creare con le loro mani un prodotto figlio di una visione comune – un prodotto, in questo caso, tanto tradizionale quanto innovativo (a livello di composizione e di animazione dei movimenti sembra riprendere dalle innovazioni di Richard Williams e il suo The Thief and the Cobbler, ma l’illuminazione in digitale apre nuove frontiere rispetto all’interazione tra disegno e CGI). 
Nota a margine molto positiva è il doppiaggio italiano, capitanato da un Marco Mengoni finalmente (o forse sarebbe meglio dire stranamente) a suo agio nei panni di doppiatore, accompagnato da una Carla Signoris al suo primo ruolo vocale al di fuori del franchise di Alla ricerca di Nemo, un sempreverde Francesco Pannofino e un’irriconoscibile Ambra Angiolini
VOTO: 7,5/10


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