Orange Is the New Black – La recensione della settima e ultima stagione

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Di Gabriele La Spina

A sette anni dal suo debutto, tra le serie che ha lanciato Netflix, la creatura di Jenji Kohan esegue il suo canto del cigno. Orange Is the New Black chiude i battendi con la sua settima stagione, e lo fa nel modo più soddisfacente possibile, dando un perfetto epilogo alle storyline avviate e sviluppate nel corso delle sei stagioni precedenti, riguardanti le diverse detenute del carcere di Litchfield.

Ricordiamo ancora bene il primo episodio della prima stagione dove la voce fuori campo di Piper parlava del suo rapporto con la pulizia, fu il leitmotiv del primissimo trailer della serie, e in quello stesso modo l’ultimo episodio di questa stagione chiude il percorso evolutivo di Piper, interpretata da Taylor Schilling che insieme al suo personaggio ha maturato la sua intensità attoriale; il suo radioso sorriso e lo schermo totalmente arancione, da sempre firma della serie, è l’ultima cosa che vediamo di Orange Is the New Black. 
Serie delle più inusuali, di carattere biografico, quella della Kohan è stata in continua evoluzione, prima improntata come una comedy, per poi trasformarsi in un puro dramma; è uno dei casi rari di cambio di categoria agli Emmy infatti; se le prime due stagioni sono state un puro piacere nell’assaporare ambientazioni e dinamiche carcerarie del tutto nuove, con le seguenti la serie ha cercato di lanciare messaggi ben pensati; la terza stagione è stata in un certo senso un ponte di passaggio, per una serie che sarebbe stata, dalla quarta in poi, mezzo per raccontare dei diritti negati, della disparità di genere, degli abusi, a cui le donne, ma soprattutto le detenute dei carceri americani, vengono sottoposte ogni giorno, a volte in modo forse troppo marcato ma pur sempre efficace. Con una finestra sui social network, rappresentati come via d’uscita anche da una vita oppressiva come quella di una detenuta, questa stagione è stata forse una delle più rilevanti nell’era di Trump, parlando delle drammatiche condizioni dei clandestini, e del loro trattamento nella fase di deportazione. L’impotenza delle protagoniste, Blanca e Maritza, incosapevoli clandestine, è l’ennesimo pugno nello stomaco al quale la showrunner ci ha già abituati in passato. Consci del fatto che una serie non potrà cambiare un sistema tanto errato.
In parallelo vengono trattate tematiche legate all’insanità mentale delle detenute, da Red, protagonista di sequenze estremamente toccanti, a Lorna, che fungono quasi da redenzione per il personaggio di Nicky; nelle scorse stagioni quasi sempre sulla cattiva strada tra una disintossicazione e l’altra, qui angelo custode dei suoi cari. La delicatezza è la chiave della narrazione di ogni tematica di quest’ultimo giro, più di quanto lo sia stato in passato; qui viene affrontato nuovamente, ma con più introspezione e gradualità, il tema del suicidio in carcere, attraverso Taystee, ormai rassegnata all’ergastolo e in cerca di una via di fuga, anche se non prettamente fisica, tuttavia il suo sviluppo sarà dei più inaspettati. Vi è inoltre anche spazio per la tematica del #MeToo, con una vicenda legata alla figura di Joe Caputo, e un personaggio appartenente alle scorse stagioni; anche se trattata forse con casualità, la presa di coscienza del protagonista risulta un’ottima esposizione anche nell’ambito maschile.
Nella stagione finale di Orange Is the New Black vediamo come le detenute riescano a trovare il loro posto, nonostante bramassero la libertà fin dal primo episodio, e non si tratta di un happy ending; nessuno può essere felice di trovarsi rinchiuso. Si tratta di non arrestare la marcia e mai abbandonare la speranza. Il messaggio finale della serie è proprio quello di non smettere mai di lottare, anche nel peggiore degli scenari. Un insegnamento forse già sentito. Eppure i ritratti di queste donne hanno cambiato considerevolmente il modo di concepire la televisione stessa, fin dal suo esordio nell’ormai lontano 2013. 
L’episodio finale “Here’s Where We Get Off”, diviene, in particolar modo negli ultimi frangenti, un tributo alla serie stessa. Che fine hanno fatto tutte le altre detenute trasferite a seguito della famosa ribellione? Dei brevi cambi di scena ci mostrano ognuna di loro ancora impegnate in quello che sembra un continuo ciclo carcerario, quasi un ritorno a quanto visto nella prima stagione: una nuova detenuta in arancio arriva, con un aria sperduta, e Boo e le altre la accolgono al loro tavolo dandole qualche dritta; proprio come Piper. Ed è impossibile non versare una lacrima per coloro che hanno conquistato la propria libertà, che sia fisica, come per Gloria e Blanca, o mentale per Taystee. Tuttavia, l’epilogo più atteso resta quello della lovestory più tormentata, quella tra Piper e Alex; che ha ricevuto uno sviluppo forse fastidioso per i fanatici del due, ma abbastanza logico.
Orange Is the New Black regala un finale che mette d’accordo gli spettatori di vecchia data, senza volerli fin troppo assecondare. Una conclusione doverosa, ma fatto più importante, molto rilevante. Non viene sprecata ancora una volta l’occasione di raccontare realtà ignorate, di essere quasi un documento su fatti misconosciuti al resto del mondo. Il pregio di questo finale è proprio quello di non perdersi in sentimentalismi del fan service, ma di mantenere la sua rotta con coerenza. In fin dei conti la serie avrebbe potuto ancora continuare, rischiando forse di snaturare i suoi personaggi. Eppure un film che faccia da coda per le storie delle nostre amate detenute, non sarebbe una pessima idea. Hai sentito Netflix?

VOTO: 8.5/10


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