Santa Clarita Diet – La recensione della terza stagione della serie horror comedy con Drew Barrymore

Seguici anche su:
Pin Share

Di Gabriele La Spina

Horror comedy, comedy splatter, comedy gore; per trovare l’etichetta giusta per Santa Clarita Diet, una delle serie più anomale di Netflix creata da Victor Fresco, già sceneggiatore e produttore di My Name Is Earl e della storica Innamorati pazzi, bisogna ritornare a un genere più cinematografico quasi datato. 

La Sheila Hammond impersonata da Drew Barrymore infatti risulta una scelta perfetta per il ruolo in quanto ex-ragazza della porta accanto della commedia romantica hollywoodiana anni ’90 (che tuttavia deve il suo esordio a un horror, ovvero Stati di allucinazione del 1980, e poi sci-fi come E.T. e Fenomeni paranormali incontrollabili); ora in panni simili a quelli di Kathleen Turner in Serial Mom, scult intramontabile di John Walters. Eppure si tratta di un genere nato con Sam Raimi, e lo splendido The Evil Dead del 1981, e poi perpetuato negli anni da numerosi registi, da Tim Burton a Edgar Wright.
Ci ritroviamo così nel quartiere troppo perfetto, troppo sgargiante, di Santa Clarita, seguendo le vicende dei due coniugi Hammond, agenti immobiliari, le cui vite vengono stravolte da un misterioso virus, che trasforma la moglie in un non-morto; rendendo i due sposi una sorta di coppia à la Dexter, con tanto di cellofan prima di ogni omicidio, ma con una morale robinhoodiana nel rendere pasti solo i cattivi di turno. La serie di Fresco, che poi si regge sulla chimica indiscutibile del duo Barrymore- Olyphant, iniziava nel 2017 con una prima stagione dalla scrittura altalenante, non sempre coinvolgente nello sviluppo delle storyline (solitamente due, quella della coppia Hammond, e quella della figlia Abby insieme all’amico Skyler). Eppure Santa Clarita Diet invecchiando migliora.

Ogni elemento aggiunto dalla seconda stagione in poi ha aiutato la solidità della serie che, attenzione, non ha alcuna pretesa di essere un pezzo di televisione d’autore, senza tenere testa a HBO. Santa Clarita Diet si afferma come guilty pleasure, e basta quel pizzico in più alla sceneggiatura per giustificare situazioni borderline, weird, e sketch sempre più intriganti degli Hammond, che cercano di coniugare la normalità matrimoniale a una vita colma di amputazioni, sbudellamenti, il tutto accompagnato “da un buon Chianti”. Tuttavia Sheila ha poco a che fare con il mitico Lecter.
Proseguendo una inspiegabile, e probabilmente abbastanza stonata al contesto, storyline ambientalista legata a Abby e Skyler, si spera un cerchio chiuso in questa stagione, che ha probabilmente dato vita a dello spazio per i due personaggi che altrimenti, in questo giro, sarebbero rimasti inutilizzati; la terza stagione ha dato modo di scoprire ulteriori dettagli sulle origini del virus millenario che affligge, o ha benedetto (dipende dai punti di vista), Sheila; con dei temibili russi in cerca di un non-morto per delle sperimentazioni, e i cavalieri dell’ordine segreto, sorta di slayer citando la mitica Buffy di Wedon.

Santa Clarita Diet è di sicuro pane per gli amanti degli scult anni ’90 di Walters, ma pecca di timidezza. Se ogni stagione ha aggiunto mordente alla serie, è quasi una certezza che la quarta, sperando nel rinnovo di Netflix, dia modo a Fresco di offrire un quadro più deciso. Pretendiamo più coraggio, vedere gli Hammond osare di più, con un po’ meno di ingenuità nella scrittura, lasciando tuttavia intatto lo spirito easy della serie.

VOTO: 7/10


Pubblicato

in

da