The Dinner – La recensione

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Di Edoardo Intonti

Inutile continuare a trasportare sullo schermo il libro “Het diner” dell’autore olandese Herman Koch, arrivato, dalla pubblicazione del manoscritto nel 2009,  a ben tre tentativi più o meno riusciti: Il primo, The Dinner, nel 2013 da parte dell’olandese Menno Meyjes, il secondo, il nostrano I nostri ragazzi di Ivano De Matteo e infine, quello di quest’anno, chiamato nuovamente The Dinner, reinterpretazione dell’israeliano Oren Moverman, con un cast universalmente noto, composto da Rebecca Hall, Richard Gere, Steve Coogman e Laura Linney.

Non è difficile capire perché l’attrice Cate Blanchett avesse puntato questo progetto per il suo debutto registico: come nelle versioni precedenti tratte dallo stesso bestseller, ci troviamo a conoscere due fratelli con relative mogli al seguito, intenti a consumare una cena innaturalmente formale, scusa per discutere del destino dei loro figli, coinvolti in un crimine orrendo per il quale potrebbero però farla franca.

Il paragone con il Carnage di  Roman Polański è inevitabile: quattro genitori preoccupati per il futuro e l’educazione dei loro figli, finiscono per rinfacciarsi tra loro errori del passato, dispiaceri covati troppo a lungo e segreti inconfessabili, in quello che dovrebbe essere un continuo e travolgente scambio di battute tra i quattro personaggi, che, come insegna Polański con la sua trasposizione dell’opera di Yasmina Reza, deve avvenire sì graduatamene, ma continuamente e in breve tempo (79 minuti nel suo caso).
Qui invece assistiamo ad una eccessiva, e inutile, esplorazione dei personaggi, dei loro drammi personali, dei loro caratteri e di fatti avvenuti anni prima della cena in questione; elementi assolutamente non necessari per sostenere il punto focale del film: come gestire una situazione del genere? Come si comportano dei genitori quando un proprio figlio compie un atto così malvagio? Fino a che punto ci si può spingere per proteggere la propria prole, ma sopratutto, qual’è il modo migliore per aiutarli? Se negli ultimi quindici minuti del film  si cerca di dare una risposta a questi quesiti, supportati da buoni dialoghi e ottima recitazione di tutti i presenti, viene da chiedersi perché tutta la pellicola non abbia preferito mantenersi sullo stesso stile, piuttosto che tentare di creare un ibrido che unisse i drammi personali (finalmente usciti allo scoperto) di una famiglia disfunzionale, ma vagamente quotidiana con le problematiche del divorzio, della malattia e della paternità, ad una questione così delicata come quella del crimine, e che meritava tutta l’attenzione del regista.

Gli anglosassoni sono soliti ripetere, in ambito di scrittura (sopratutto per l’ambito cinematografico, ma non solo) il motto “Show, don’t tell”, ovvero: “mostra, non raccontare” , componente talvolta carente in questa pellicola, a discapito di flashback continui posti con l’obbiettivo di stemperare la prolungata sedentarietà della scena principale e fornirci informazioni di cui non abbiamo bisogno. In Carnage non eravamo a conoscenza di alcunché dei personaggi e non ci veniva praticamente mostrato l’incidente scatenante il colloquio, qui invece si mettono in piazza fin troppi elementi che sovraccaricano lo spettatore, togliendo ogni dubbio sul perché delle azione dei ragazzi o delle dinamiche familiari all’interno dei genitori.
Senza soffermarsi sull’uso infelicissimo della colonna sonora e del montaggio (sopratutto per quello che riguarda una psichedelica sequenza flashback) si è quasi tentati di premiare il lavoro di Moverman solo per la sequenza finale e la scelta degli ottimi interpreti. Non adrenalinico, eccessivamente lungo e frammentato, ma in fin dei conti godibile se armati di un po’ di pazienza.

VOTO: 6,5/10