The Handmaid’s Tale – La recensione della terza stagione della serie Hulu

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Di Giuseppe Fadda

La prima stagione di The Handmaid’s Tale era, senza troppi giri di parole, un capolavoro. Con la sua estetica al contempo appagante e desolante, con la sua sceneggiatura provocatoria e politicamente feroce, con le straordinarie prove dei suoi interpreti, la serie era riuscita a catturare perfettamente lo spirito del romanzo di Margaret Atwood – si potrebbe persino dire che la serie è uno dei pochi esempi in cui un adattamento riesce ad arricchire l’opera su cui si è basato.
La seconda stagione, prosecuzione originale del romanzo, non aveva forse la stessa coerenza a livello di ritmo e di coinvolgimento della prima – ma l’eleganza della regia, la bravura degli attori e la profondità della caratterizzazione dei personaggi la rendevano comunque una delle serie più efficaci e potenti del momento. Purtroppo, lo stesso non vale per questa terza stagione, e non perché, come hanno detto in molti, la serie si sarebbe dovuta concludere prima. L’angosciante storia di Gilead ha ancora molto da offrire, molti spunti da ampliare e seguire: il problema è che questa stagione non lo fa, preferendo viaggiare ancora su terreni sicuri e già visti, ritardando l’arrivo della tanto attesa Resistenza a tal punto da far perdere credibilità sia alla storia che ai personaggi centrali.
La scorsa stagione si era conclusa con la decisione di June (Elizabeth Moss) di rimanere a Gilead per salvare la figlia Hannah. Una scelta dolorosa ma comprensibile, e il potenziale catalizzatore di una serie di drastici eventi. Ma questo non succede: June torna più o meno nella stessa situazione in cui si trovava prima (semplicemente in una casa diversa), senza subire minimamente le conseguenze della sua tentata fuga. Dove sono finiti i tempi in cui lo spettatore assisteva ad ogni singola scena con il fiato sospeso, temendo che al minimo errore la vita di June potesse essere messa a repentaglio? Ormai June (dopo ben tre tentate fughe) ha infranto qualsiasi regola possibile e immaginabile senza praticamente esserne punita; nel corso delle precedenti stagioni abbiamo visto gente essere uccisa per molto meno. Ma gli sceneggiatori possono testare la credibilità dello spettatore solo fino a un certo punto prima che la finzione di Gilead crolli – e se il mondo distopico e crudele della serie, così efficacemente costruito nelle prime stagioni, risulta ormai qualcosa da cui la protagonista può tranquillamente salvarsi, il contenuto politico della serie perde di rilevanza e di efficacia. Quasi come se gli autori fossero consapevoli di ciò e volessero sopperire a questa mancanza, le violenze e le brutalità diventano sempre più frequenti: ma anche in questo caso, lo spettatore può assistere solo a tanta sofferenza prima che essa smetta di commuovere e diventi un espediente frustrante, persino manipolatore.
 

A livello estetico e visivo, la serie non è mai stata così impeccabile. Ogni inquadratura è una composizione sublime a livello sia cromatico che simbolico – ma lo stile non può sopperire alla mancanza di contenuto, o almeno non del tutto. Quello che manca a questa terza stagione è una trama: gli eventi si susseguono senza lasciare veramente il segno, perché di fatto June continua a rimanere in una situazione di stasi per più di metà stagione. Gli sceneggiatori hanno commesso un grandissimo sbaglio nel ridurre drasticamente i flashback sulla nascita di Gilead, che nelle stagioni precedenti erano parte integrante della storia e costituivano alcuni dei suoi momenti più politicamente arguti; e anche quando si riscontrano degli spunti interessanti, l’esecuzione non è sempre ottimale: esempio lampante è l’ottavo episodio, in cui il destino di Ofmatthew/Natalie (Ashleigh LaThrop, una delle sorprese di questa stagione) è una rappresentazione letterale del sogno repubblicano di un mondo in cui la vita di un feto è più importante di quella di una madre. Un’idea interessante sviluppata però in un episodio inutilmente ristagnante e sfiancante. 

Quello che, infine, delude più di ogni altra cosa è la caratterizzazione dei personaggi, sacrificata in virtù di una storia che arriva al suo punto di svolta decisamente troppo tardi. L’evoluzione di June è delineata in maniera zoppicante e altalenante, tanto è che spesso le sue azioni ci risultano incomprensibili o assurde: e la Moss, indubbiamente una delle migliori attrici del momento, sembra essere diventata la parodia di sé stessa, enfatizzando ogni sguardo e ogni micro-espressione quasi a voler bilanciare la superficialità e incoerenza della sceneggiatura. L’attrice si riscatta negli episodi conclusivi della stagione, quando June decide finalmente di prendere in mano la situazione, ed è semplicemente monumentale nell’episodio finale: ma in molti altri momenti la sua intensità, non supportata dal copione, risulta vana. Lo stesso, purtroppo, vale per Yvonne Strahovski, il cui personaggio era il punto di forza della seconda stagione: Serena è sempre stata un personaggio fortemente ambiguo, ma l’involuzione cui è sottoposta in questa stagione è imperdonabile e ingiustificata. E’ irritante vedere un’attrice così brillante e così chiaramente dedita al personaggio lottare per dare una logica alle sue azioni.

Il cast di comprimari è, come sempre, notevole: Joseph Fiennes, Samira Wiley, O.T. Fagbenle, Amanda Brugel e Madeline Brewer continuano a ricoprire i loro ruoli perfettamente. Non tutti, però, sono sfruttati al pieno delle loro potenzialità: perché aggiungere al cast Christopher Meloni in un personaggio inquietante e interessante per poi eliminarlo quasi subito? Perché relegare la bravissima Alexis Bledel, straziante nell’esplorare il trauma di Emily, ad una posizione marginale, lasciandola in disparte da metà stagione in poi? Sono due gli attori a lasciare l’impatto maggiore: la prima è Ann Dowd, che continua ad essere una zia Lydia terrificante e meravigliosamente complessa; il secondo è Bradley Whitford, che cattura tutte le contraddizioni del Comandante Lawrence senza demonizzarlo né giustificarne le colpe. 
Non mancano, nel corso della serie, singole scene che ci ricordano di quanto stupefacente questa serie possa essere: il dialogo tra June e la madre adottiva di sua figlia nella prima puntata; le commoventi scene in cui Emily tenta di reinserirsi nella vita di tutti giorni e di riallacciare i rapporti con la sua famiglia; i piccoli momenti di tenerezza tra Janine e Zia Lydia; i momenti dedicati al complesso rapporto tra il Comandante Lawrence e sua moglie Eleanor (una devastante Julie Dretzin); il feroce litigio tra Serena e June di fronte alla statua deturpata di Lincoln, in cui sia la Moss che la Strahovski sono in stato di grazia. Ma questi momenti rendono quelli più sterili ancora più frustranti. Finalmente, dall’episodio 9 in poi, la narrazione si sblocca da quella lunga fase di indecisione che aveva caratterizzato gli episodi precedenti. E l’episodio finale, così potente da riscattare da solo l’intera stagione, è sensazionale, uno dei migliori dell’intera serie: finalmente vediamo la Resistenza, e vedere queste donne unirsi eroicamente, mettendo la loro vita in prima linea, per combattere contro Gilead è esaltante, entusiasmante e profondamente commovente. Se la quarta stagione proseguirà su questa linea, allora potremo perdonare questa terza fatta di alti e bassi, e non avremo da temere. Praise be
VOTO: 6.5/10