Venezia 75: The Mountain – La recensione del film con Jeff Goldblum e Tye Sheridan

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 Di Daniele Ambrosini

Rick Alverson confeziona un dramma ambiguo che non trova mai il giusto equilibrio narrativo, un film ambizioso le cui mire sono limitate da una messa in scena piatta e poco incisiva che penalizza molto il risultato finale di una pellicola che aveva il potenziale per essere di gran lunga migliore; ma così com’è The Mountain è semplicemente destinato ad essere ricordato come uno dei film peggiori della settantacinquesima edizione del Festival di Venezia.

The Mountain è sorretto da due personaggi di per sé molto interessanti e ben caratterizzati: lo psichiatra vecchio stile ormai destinato a soccombere in seguito all’avvento di una medicina più umana per i paziente che non prevede la lobotomia o l’elettroshock, pratiche alle quali ha dedicato la sua intera carriera; e Andy, il ragazzo rimasto orfano con il quale lo psichiatra instaura un rapporto malsano nel corso di un viaggio all’interno di numerose strutture psichiatriche. Sia il veterano Jeff Goldblum che la giovane star in ascesa Tye Sheridan fanno del loro meglio per sostenere questi ruoli scomodi ed incredibilmente maturi, a loro modo insoliti se inseriti all’interno della loro filmografia, ma non possono salvare una sceneggiatura che non li valorizza affatto.
Tutto nel film è pensato per creare un’effetto straniante, come se il fine ultimo del film, più che raccontare una storia compiuta, fosse quello di spiazzare lo spettatore costantemente ricorrendo a trucchi più o meno evidenti che si dimostrano più o meno riusciti, a seconda delle occasioni. Per creare questa costante sensazione di estraniamento la sceneggiatura è costruita per sottrazione: poche essenziali battute, pochi avvenimenti chiave presentati senza alcuna introduzione e concatenati quasi senza un nesso logico evidente, perché Alverson non è interessato a spiegare, ad approfondire, quanto a lavorare per sensazioni. Peccato però che l’assenza di una linea narrativa chiara impedisca al film di trovare una sua dimensione e di esprimere veramente qualcosa, perché è davvero difficile capire dove The Mountain voglia andare a parare e se, in fin dei conti, abbia realmente qualcosa da dire. L’impressione è quella di trovarsi davanti ad un film vuoto ed inconcludente.
La sceneggiatura inutilmente enigmatica che sfiora in più occasioni il ridicolo – soprattutto nelle scene di Denis Lavant, interprete di uno dei ruoli più forzatamente teatrali, fastidiosi e fuori luogo di sempre – è il problema alla base del film, ma non è l’unico. Infatti per quanto lo script del film non funzioni, bisogna ammettere che pone delle premesse coraggiose e in qualche modo ambiziose che non sono affatto sorrette dalla regia di Alverson, che realizza un film visivamente piatto. La sua regia è ordinata, pulita, molto classica, forse fin troppo semplice per sostenere una sceneggiatura così assurda che avrebbe avuto bisogno di una regia più coraggiosa e di uno stile più deciso per poter avere una minima chance di funzionare. A contribuire alla disfatta visiva è anche una fotografia poco ispirata; il direttore della fotografia Lorenzo Hagerman infatti, assecondando la ricerca dell’effetto straniante tramite il contrasto, decide di illuminare la scena principalmente con luci bianche molto chiare, come a voler contrapporre le immagini ai toni dark della sceneggiatura. Un’idea originale, certo, ma realizzata male e non realmente necessaria.
In definitiva, The Mountain è una cocente delusione, viste le aspettative della vigilia, un film inaspettatamente brutto, e sicuramente non meritevole del concorso veneziano.
VOTO: 4,5/10