Di Daniele Ambrosini
Contrariamente ad altri progetti con una storia produttiva analoga, Madre mantiene il corto come punto di partenza, per poi muoversi in un territorio inesplorato, completamente nuovo. I primi venti minuti del film sono composti dal cortometraggio stesso, che per l’occasione non è stato rigirato o alterato, ma mantenuto integralmente, in tutta la sua potenza. Quello che viene dopo è qualcosa di altro, un’estensione di quel mondo narrativo, di quella storia, volto però all’analisi della sua protagonista, con intenti completamente diversi da quelli del corto.
Elena nota Jean sulla spiaggia e intuiamo da subito perché è proprio lui a catturare il suo interesse: assomiglia a suo figlio. Così lo segue fino a casa, per guardarlo più a lungo, ma anche per poter vedere che persone sono i suoi genitori. Jean la nota, ma sul momento non dice niente. Il giorno dopo si presenta a lavoro da lei e con una scusa inizia a parlarle, prima di dirle di averla vista. Lei si scusa, ma lui risponde con un ingenuo e sfacciato “era da tempo che non mi capitava una figata del genere” e le chiede di venire a vederlo alla sua prossima partita di calcio. Jean è un ragazzo solare, allegro, sicuro di sé ma adorabile i cui interessi maggiori sono “mangiare, ascoltare musica, giocare a calcio e le ragazze”, in quest’ordine, perché è in quest’ordine che è più bravo. Tra i due scatta qualcosa, comincia un giocoso rapporto, fatto di piccoli momenti, destinato a cambiarli per sempre.
Sorogoyen, in una qualche misura, realizza un film sul desiderio, inteso in senso molto ampio. Fondamentale sotto questo punto di vista è la relazione con Jean, che è onnipresente nel corso del film, e diventa fondamentale per comprendere il reale desiderio di Elena, il cui percorso è tutto mirato alla comprensione delle proprie necessità e arriva a conclusioni niente affatto banali. Il loro rapporto è centrale, sì, ma questo film è incentrato interamente su di lei, su quella madre che la macchina da presa ha inseguito senza concederle tregua nella scena iniziale, su quella donna che ha sacrificato la propria vita in nome del ricordo del figlio, senza neanche rendersene conto. Elena è l’oggetto dell’analisi di Sorogoyen ed è il suo percorso verso la scoperta di quel desiderio, così radicato da essere necessità, il motore narrativo dell’intera pellicola.
Sorogoyen costruisce un film intelligente, in grado di evolvere in maniera inaspettata e di scavare in profondità, in maniera concreta e credibile, all’interno della psiche della sua protagonista, caratterizzata in maniera eccellente. E pure i personaggi secondari sono costruiti a regola d’arte, laddove non si abbia a disposizione un intero arco narrativo, al regista spagnolo bastano un paio di pennellate ben assestate per realizzare dei ritratti vividi e realistici dei personaggi che abitano questa storia. Molto dolce, a tratti nostalgico, Madre è un thriller psicologico, nella stessa misura in cui è un film di formazione, ma soprattutto è un film di relazione, un’interessante studio sui personaggi che evolve in maniera inaspettata, nonostante l’assenza di grandi stravolgimenti o colpi di scena, un film che trova la sua forza nella semplicità e nell’onestà con cui vengono tratteggiati non solo i personaggi, ma tutti gli elementi facenti parte di quel mondo narrativo.
Sorogoyen alterna piani sequenza a scene dal montaggio marcato e frenetico, inquadrature girate con steadicam e lenti grandangolari a primi e primissimi piani girati su supporto fisso col teleobiettivo. Gioca con la percezione dello spettatore, lo sballotta da una parte e dall’altra con garbo, operando questi piccoli cambi di direzione, sia a livello narrativo (si veda il passaggio dalla prima alla seconda scena), che tecnico (nella seconda parte c’è un piano sequenza girato col cellulare da manuale), che concettuale (si veda l’abilità di sfruttare gli elementi tipici di vari generi cinematografici in un insieme coerente), che ben si adattano alla storia narrata, quella di una donna spezzata in un periodo di grande confusione. Madre è un film molto delicato, nonostante questi piccolissimi ma costanti stravolgimenti Sorogoyen non calca mai la mano più del necessario, anche se, da in quando in quando, si lascia prendere la mano da qualche manierismo di troppo e finisce per caricare emotivamente momenti che forse avrebbero avuto bisogno della stessa placida dolcezza con cui porta avanti buona parte del film.
A rendere speciale un film simile sono ovviamente le interpretazioni. A brillare è Marta Nieto, straordinaria nel complicato ruolo di Elena, la sua è una performance sentita e sfaccettata, profondamente umana. Nella stessa scena può passare in maniera credibilissima da una uno stato emotivo al suo completo opposto, raccogliendo in maniera egregia la sfida insita nel portare in scena un personaggio di questo calibro. Assolutamente lodevole è anche la prova di Jules Porier, interprete dell’audace e dolcissimo Jean, la sua naturalezza e scioltezza regalano al personaggio una marcia in più. È se c’è una scena dove entrambi danno il meglio di sé, quella è proprio il bellissimo finale, misterioso quanto rivelatore, tipico quanto atipico, spoglio quanto carico. Sorogoyen trova la perfetta quadratura del cerchio, chiudendo in maniera egregia la storia di Elena, o almeno suggerendone un’evoluzione molto soddisfacente. Una scena di una certa potenza emotiva che, nel bene o nel male, non potrà lasciare indifferenti.