Venezia 76: Seberg – La recensione biopic di Benedict Andrews con Kristen Stewart

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Di Daniele Ambrosini

Dopo il sorprendente ed emozionante Una, il regista teatrale australiano Benedict Andrews torna a dirigere un film per il grande schermo con Seberg, biopic dedicato all’attrice Jean Seberg e all’operazione portata avanti per anni dall’FBI per screditarla agli occhi dell’opinione pubblica, per via del suo supporto economico e morale alle Pantere Nere e alla causa afroamericana negli anni ’60. Il film ricostruisce la vicenda del programma di intelligence e controspionaggio dell’FBI denominato COINTELPRO, che ha fatto uso di metodi illegali per colpire attivisti e supporter dei movimenti civili e oppositori politici, e gli effetti che questo ha avuto sulla vita e la psiche della celebre diva, resa immortale dal suo lavoro nel cinema francese.

Seberg parte bene, con un’apertura pop, colorata e molto vivace, che lasciava presagire una direzione insolita per un biopic, più fresca, peccato che poi questa leggerezza di fondo finisca presto per diventare superficialità. Nettamente diviso in due filoni principali, quello legato alla Jean Seberg di Kristen Stewart e quello dell’ispettore dell’FBI Jack Solomon interpretato da Jack O’Connell, il film alterna e intreccia queste due linee narrative, senza però riuscire a dare a nessuno dei personaggi uno sviluppo adeguato e senza riuscire a giustificare molti dei principali passaggi di trama. 
La sceneggiatura firmata da Joe Shrapnel e Anna Waterhouse va molto di corsa, accumula elementi e personaggi secondari senza mai fermarsi un attimo su nessuno di essi, senza mai realmente approfondire niente. Sorprende soprattutto la superficialità con cui viene trattato il rapporto tra Jack e la sua osservata speciale, stupisce che pur essendo il cuore del film non gli si dedichi abbastanza tempo per rendere credibile il rapporto che questo, inevitabilmente, sviluppa con la Seberg. Un esempio riuscito di questa relazione a distanza tra uomo di legge e “ricercato”, ce l’ha offerta The Old Man and the Gun lo scorso anno, lì si veniva a creare tra i protagonisti un tipo di rapporto non dissimile da quello dei personaggi principali di Seberg, ma lì si veniva a creare un sentimento nel tempo, veniva costruito con attenzione, scena dopo scena, qui invece sembra solo che sia necessario che questo accada e che non ci sia un reale interesse nel pennellarne la genesi o le reali motivazioni.
Poca attenzione, poi, viene dedicata non solo alla questione razziale, come in realtà era prevedibile, ma anche a quello che era lo snodo fondamentale del film, quello che avrebbe potuto elevarlo e farlo diventare qualcosa di altro, ovvero il racconto delle conseguenze delle azioni dell’FBI sulla Seberg, la cui fragile psiche venne messa a dura prova. Pure qui regna la superficialità, le cose semplicemente succedono e non non sono mai portatrici di una reale carica emotiva, soprattutto perché non si è costruito abbastanza per arrivare a quel momento, per permettere al pubblico di sentire davvero quel personaggio. Ed è un peccato. 
Kristen Stewart dà vita ad una Jean Seberg elegante e moderata, la sua è una buona performance che però non è supportata da un buon film. Stavolta Andrews ha realizzato qualcosa di palesemente hollywoodiano, un film patinato e glamour in superficie, sorretto da una sceneggiatura in grado di raccontare in maniera semplice una vicenda affascinante, ma incapace di andare a fondo, che in definitiva risulta essere privo di contenuti (che sono per lo più solo accennati) e fine a sé stesso, vuoto. A non aiutare c’è anche il fatto che il film mantiene per tutta la sua durata un tono molto leggero, sospeso tra qualcosa che non è propriamente commedia, ma non arriva mai neanche ad ad essere un dramma propriamente detto, e conseguentemente non riesce a sfruttare al meglio i momenti di maggiore pathos. Un approccio di genere, magari più vicino al thriller o alla spy story, avrebbe sicuramente aiutato il film ad essere più incisivo, meno anonimo.
La scena finale è molto bella ed è una summa di tutto quello che ci sarebbe dovuto essere ed effettivamente non c’è stato, è l’unico momento in cui si riesce davvero ad entrare in sintonia con i protagonisti e le loro emozioni, nonché l’unico momento in cui è possibile riconoscere il Benedict Andrews che ci aveva stregato tre anni fa, dispiace perciò che quello che è venuto prima non sia all’altezza di quel momento, comunque pensato nell’ottica di un cinema popolare, ma decisamente più incisivo di tutto ciò che è venuto prima.
VOTO: 5/10